Zong odiava il tempo. Letteralmente. Fin da quando era bambino, tutti si accanivano su di lui distraendolo dalle sue attività quotidiane, dalle contemplazioni, con la scusa del tempo. E finiva sempre per lasciare le cose a metà, insoddisfatto. A causa di ciò doveva sempre interrompere i giochi, quando sua madre gli urlava :«E’ tempo di lavarsi le mani!», o quando suo padre gli intimava di non perdere tempo mentre faceva i compiti. E così, passava molte ore a lamentarsi con sua nonna di quanto il tempo fosse tiranno. Lei lo ascoltava, quieta. Era così anziana che la sua pelle sottilissima e pallida pareva tessuta da un ragno. Zong avrebbe giurato che i suoi occhi ciechi in continuo movimento avessero la capacità di vedere oltre i paesaggi dei comuni mortali, altrimenti da dove poteva trarre spunto per le storie fantastiche che era solita raccontargli? Ogni cosa di lei era di una lentezza esasperante, ogni movimento, ogni parola, ogni azione. A tavola portava piccole quantità di riso alla bocca e le masticava con flemma, assaporando ogni chicco. In famiglia veniva sgridata bonariamente per questo motivo: «Dai, nonna, quando finirai di mangiare e potremo alzarci dal tavolo, probabilmente saremo più vecchi di te.» Lei si incaponiva, e replicava: «Chi dimentica di gustare il sale della vita, non sentirà più nessun sapore.» E alzava la mano a mezz’aria, puntando il dito adunco sui commensali che cercavano di mantenere un’espressione composta trattenendo le risate. Dal canto suo, la vecchia faceva finta di non accorgersi di aver scatenato l’ilarità generale per l’ennesima volta, e ricominciava indolente a prendere le palline di riso tra le bacchette. Non c’era posto per la rabbia sul suo volto, perché sorrideva sempre. A prima vista si sarebbe detto che fosse eterna, che conoscesse il segreto per far arrestare l’inesorabile discesa della sabbia degli anni nella clessidra della vita. E probabilmente nel villaggio in molti avevano scommesso sulla sua longevità, che aveva dell’incredibile. Per questi motivi, quando arrivò il giorno della sua dipartita, nessuno volle crederci. Una lunga fila di paesani esterrefatti si formò fuori dalla capanna, per dare l’estremo saluto alla donna. Zong sapeva che l’immortalità non è contemplata sulla Terra, ma quando sua nonna morì, di morte naturale e improvvisa, pacifica così come era stata la sua vita, la sua mente ne venne sconvolta. E quando si buttò tra le braccia di sua madre in lacrime, chiedendole perché fosse capitato proprio a lui, di subire un tale evento nefasto, questa rispose solo: «Era arrivato il suo tempo». Il bambino divenne una furia. Com’era possibile? Di nuovo lo zampino di quel perfido tempo! Non poteva più accettare un simile affronto! E fu così che Zong prese una decisione. Ficcò i pochi averi e qualche pallina di riso avvolta nelle foglie di vite in un fagotto e si preparò per un lungo viaggio. Avrebbe intrapreso il cammino per fermarlo una volta per tutte, quel tempo infame! Esattamente però, dove doveva andare? Non sapendo dove cercarlo, studiò tutti i libri possibili sull’argomento e arrivò alla conclusione che se il tempo scorre come l’acqua di un fiume, lui avrebbe dovuto risalirlo fino ad arrivare alla fonte. Nonostante i genitori lo avessero implorato più volte di non partire, era determinato a non abbandonare la sua missione. Li salutò velocemente, perché non aveva tempo da sprecare in convenevoli. Ignorò il pianto di sua madre e non gli venne in mente neppure per un secondo che c’era l’eventualità che non rivedesse più suo padre. Girò semplicemente le spalle, scrollandosi di dosso ogni dubbio. Avrebbe avuto tutto il tempo, in seguito, per risolvere le questioni insolute. Si mise in cammino. Su una mappa antica individuò la sorgente che faceva al caso suo sulla cima del monte Acuto, una montagna così alta da scomparire dietro le nuvole, di cui non si vedeva la fine. La certezza di aver scoperto il covo del tempo, lo rese intraprendente, arrogante, sbrigativo. Se incontrava qualcuno per strada non lo degnava di uno sguardo, mangiava in fretta, giusto il tanto che gli serviva per sostenersi nell’impresa, senza badare a ciò che aveva nel piatto. A ogni passo cresceva e diventava uomo. Ma non lasciò mai che le distrazioni lo fuorviassero. Nemmeno quando una giovinetta che era l’amore della sua vita giacque con lui durante un plenilunio e cominciò a seguirlo. Non si curò mai di aiutarla a rialzarsi quando inciampava, aveva troppa urgenza. Non si voltò mai a controllare che stesse bene. La fanciulletta l’amò a tal punto da non lamentarsi mai, lo sostenne per tutto il tempo. E lo lodava per il suo coraggio, ma lui nemmeno la sentiva. Neppure quando nacquero i suoi figli, Zong smise mai di marciare. E non si accorse di quando li perse per la strada, perché erano ormai troppo stanchi di corrergli dietro e avrebbero perso lo spettacolo dell’alba e del tramonto, della primavera e dell’inverno. Allo stesso modo, non fece caso ai cambiamenti del suo corpo. A ogni falcata diminuì la capacità dell’uomo di gustare qualsiasi cibo, fino a scomparire del tutto. Ogni alimento era sciapo, insapore. Il suo naso non riuscì a catturare più l’odore dell’erba appena tagliata, dei fiori in boccio. La lingua riarsa anelava l’acqua, eppure niente placava la sua sete. Arrivò il giorno in cui non poté più correre e si mise a camminare, ma non smise di salire verso l’alto. Ignorò lo scricchiolio delle ossa, le fitte alle ginocchia, la schiena che implorava un materasso morbido dove riposare. La vicinanza con la destinazione gli infuse nuova forza La cima era a un tiro di schioppo. Se allungava il braccio, aveva la sensazione di poterla toccare. Si fabbricò una verga con un ramo nodoso di ginepro, e faticosamente giunse alla meta tanto agognata. Il pesante portone della reggia si aprì senza che lui dovesse bussare. Lì, come previsto, il Tempo lo stava aspettando. Anni prima gli era giunta voce che un ragazzino volesse sfidarlo. Erano passate molte lune in cielo, da allora, ma è risaputo che il tempo sa essere paziente fino all’inverosimile. Ciononostante, vederlo di fronte a lui gli provocò una certa emozione. Era seduto su uno scranno d’argento, che mutava colore al passaggio delle nuvole, tanto lucido da potercisi specchiare. Non era né giovane né vecchio, e la sua folta barba ondeggiava nel vento come se fosse dotata di vita propria, descrivendo arabeschi con la punta delle ciocche. «Or dunque, arrivasti, caro Zong», disse il Sovrano con voce tonante. Zong ne rimase impressionato. Durante la salita, era stato così preso a lamentarsi di quello che aveva perso, da non pensare nemmeno per un attimo a quello che avrebbe trovato alla fine del percorso. Eppure, ciò che lo terrorizzò non fu tanto l’aspetto di colui che aveva odiato con tutte le sue forze, quanto la propria immagine rinfranta sulla superficie del trono. Vide un vecchio dalle mani rugose e i capelli bianchi e radi, che lo fissava con gli occhi stanchi di ha guardato troppo e non ha visto nulla, di chi ha udito discorsi senza sentire parole, di chi è stato tra la gente senza amare nessuno tranne se stesso e le proprie mancanze. Si era nutrito di assenze, che gli avevano lasciato in bocca un sapore sgradevole. Aveva dimenticato di assaporare, di gustare, di saziarsi. Il dolore scaturito dalla morte di sua nonna era stato talmente forte da trasformarsi in odio, immenso a tal punto da non lasciare spazio a nient’altro. In realtà, nell’istante in cui mise piede nel castello, Zong si rese conto di non ricordarsi nemmeno più perché avesse sacrificato tutta la sua vita, le motivazioni di cui si era nutrito ora sembravano così vacue, e davanti al Tempo cadde in ginocchio e pianse. Le lacrime scendevano lente incuneandosi tra le rughe del volto. Gli bagnarono le labbra riarse, scivolarono in bocca. Per la prima volta da quando era un fanciullo, Zong tornò a sentire il sapore del sale, e non sapeva più se piangesse per tristezza o commozione, per rimorso o per rimpianto. Pianse così tanto che il Sovrano si impietosì e sentenziò: «Il tuo pentimento è sincero. Non posso farti tornare sui tuoi passi: una volta esaurito, il tempo della giovinezza non può essere recuperato. Ma posso regalarti la fanciullezza del cuore, quella che avevi perduto. Ti svelo un segreto. Io non posso essere fermato. No. Ma posso essere ingannato. Ogni volta che utilizzi bene il tuo tempo, congeli quel momento nell’eternità. » Gli donò un sacchetto. «Questo è il sale della vita. Spargilo sui tuoi passi, senza fretta. Assapora il respiro del mondo.» Il vecchio lo prese. Con lo sguardo colmo di gratitudine si chinò a baciare la mano del sovrano. Questi gli carezzò una guancia: «Va’, e non tornare. Non è la lunghezza della vita che farà di te un uomo completo, ma il modo in cui l’avrai vissuta. » E sorrise, e mentre sorrideva a Zong parve di riconoscere in quell’espressione il volto sdentato con gli occhi ciechi di sua nonna. Il vecchio tornò indietro, per la stessa strada che l’aveva condotto in cima, ma con cuore leggero, perché la discesa si sa, è più semplice, senza zavorre. Sparse il sale sui cibi, sulle bevande, sulle parole, sulle emozioni. Lo gettò a piene mani sulla terra che calpestava, riconoscendo il profumo dei fiori. Si nutrì e bevve, accorgendosi che a ogni sorso placava la sete, a ogni boccone il piacere inondava la bocca. E camminando incontrò i suoi figli, gli unici ad averlo aspettato a lungo in attesa che tornasse, che nel frattempo avevano avuto a loro volta dei figli. Attraverso gli occhi puri dei suoi nipoti, Zong capì che l’eternità è nel ricordo che lasciamo negli altri al nostro passaggio. E la pienezza della vita sta nell’assaporarne l’essenza. Lo insegnò loro, affinché non sprecassero un istante della loro esistenza. A ciascuno di loro donò un sacchetto di sale uguale a quello che gli aveva regalato il Tempo, come monito di ciò che aveva imparato nel suo viaggio. Nel breve tempo che ebbe a disposizione, non mancò più di appassionarsi, di sperimentare, di celebrare ogni nuovo giorno. Il sacchetto non si svuotò più, ogni risata, ogni entusiasmo lo colmavano magicamente. E quando giunse la sua ora, fu dolce la consapevolezza che, anche se la fiammella nei suoi occhi si era spenta, chi l’aveva amato avrebbe continuato a custodirne la luce nel proprio cuore.
14 Giugno 2020
Zong e il tempo
Scritto da Redazione CinqueColonne
"Zong e il tempo", scritto da Maena Delrio. Questo il racconto di oggi selezionato per il "10000parole contest". Votate attraverso il form in calce al racconto.