La breakdance viaggia su frequenze molto alte, non necessita di presentazioni. Il fulcro dell’essenza di questa disciplina, le “battles”. Più facile a farsi che dirsi, sane competizioni, ove non si vince nulla. Vince il sacrificio, ore e ore di sala a provare, notte e giorno, vince la perseveranza, la costanza, ed anche l’amor proprio.
Ma sono vittorie momentanea, che ti donano la giusta carica per credere in te stesso. Se c’è la sconfitta, non è la fine del mondo, anzi, si torna a casa sicuramente adirati, ma con la rabbia che dona quella grinta a fare meglio, a riflettere su cosa e come migliorarsi per il prossimo incontro/scontro cosi da riscattarsi dalla disfatta precedente. Una disciplina che non lascia fuori nessuno, non ci sono età, purtroppo però la cultura partenopea impartisce soprattutto per i maschi la fissa per il calcio, ma se intorno ai vent’anni non sei riuscito a divenire la punta di diamante, il goleador di nessuna squadra, sei fuori dai giochi, con la breakdance no.
Non è selettiva, non c’è predilezione di genere, non c’è un’età, può praticarla chiunque, il segreto è ascoltare la musica, parola di Matteo Zoe e Raffaele Ground. Due bboy che ogni giorno si allenano con dedizione, credono in ciò che fanno, hanno abbracciato la cultura breaking in tutte le sue sfaccettature.
Ciao Matteo, perché Zoe?
È nato tutto per gioco. Zoe in greco significa vita, il mio pseudonimo non è altro che un’amplificazione del mio modo di esistere in questa avventura cominciata tredici anni fa.
Balli come professionista, ma pare tutto essere nato per caso, ci spieghi meglio?
Verissimo. Ho cominciato per divertimento. C’erano degli amici che ballavano, incuriosito ci ho provato, ma come sport principalmente, poi affascinato e sedotto da questo modo sorprendente di vivere la vita, l’ho fatto mio. Un amico ballerino Matthew, mi ha dato l’input a fare sul serio. Lui fa parte della crew Knèf.
Nome insolito per un gruppo, come mai?
Knèf è l’acronimo di una tipica espressione napoletana (Kà Niusciun È Fess) e simboleggia la filosofia di vita che ci accomuna. Matthew Totaro (Matthew), Luigi Russo (Rota), Salvatore Russo (Deflow), Mariano Riccio (Kein) e Matteo Farace (Zoe).
Giunti a tal preciso gradino del tuo/vostro percorso, se ti guardi indietro cosa vedi?
Fino a 10 anni fa il breakdancer da occhio esterno veniva visto in modo strano. Abbiamo lavorato tanto e per tanti duri anni per far comprendere al pubblico che non ci “strusciamo” solo sul pavimento, ma dei ballerini al pari di classico, moderno e contemporaneo. Abbiamo affiancato per nove anni circa Alessandro Siani, durante i suoi spettacoli in giro per l’Italia. Con il passare del tempo lo stesso Alessandro ci ha dato la possibilità di divenire parte integrante con la nostra danza del suo show.
Come ti ha arricchito l’esperienza con i Knèf al talent di Maria de Filippi, Amici?
La redazione di Amici ci ha contattato per chiederci di partecipare. In primo momento eravamo incerti e dubbiosi, perché seppur un trampolino di lancio per tanti talenti nascosti, a primo acchito non sembrava potesse far al caso nostro, eravamo restii a riguardo. Ma non abbiamo desistito, perché comunque incuriositi da questa nuova e coinvolgente esperienza, abbiamo parlato con i responsabili dei casting che ci hanno spiegato che quel tipo di disciplina mancava, sarebbe stata una novità, poi noi avremmo partecipato come gruppo.
Correva l’edizione Amici 2013, la crew Knèf, nonostante le varie perplessità iniziali, si impegna tanto e arriva al serale del talent, tanta visibilità e soddisfazioni?
Noi siamo arrivati alla terzultima puntata del serale, perso alle sfide generiche, fatte di punteggi sommati. Ma non importa, è stata un’esperienza senza ombra di dubbio formativa e di crescita.
Ora io mi ritengo un ballerino a 360 gradi, vivo di spettacoli, faccio stage, workshop con i giovanissimi, porto in giro la mia arte. Voglio essere trattato come tale, finalmente presso il centro dell’impiego alla voce professione, io risulto ballerino, e ciò è molto importante, poiché se finora la nostra era una figura non riconosciuta, ora con l’evolversi e la diffusione delle discipline che insegno, step by step stiamo progredendo nella giusta direzione.
Appurato che sei un ballerino ufficiale per il lo Stato italiano, quanto tempo dedichi al perfezionamento della tua arte?
La break come tutti i tipi di danza necessita di devozione, impegno, se davvero vuoi farlo in modo corretto e serioso, il più delle volte devi mettere da parte la tua sociale e relazionale. Poiché se è pur vero che basta poco per allenarsi, ma a quello devi associarci la vita gipsy per il mondo, confrontarsi con gli altri ed apprendere quanto più possibile.
Supponiamo che il tuo allenamento sia quotidiano, quanto del tuo tempo dedichi per mantenerti sempre sprint e in forma?
Per tantissimi anni mi sono allenato per non meno di 5/6 ore al giorno, tutti i giorni, anche e soprattutto di notte. Ora gli impegni relazionali e di vita ordinaria sono parte integrante della quotidianità, però parlando in gergo, non manca giorno che non poggi la mano al pavimento. Un atto dovuto, deformazione professionale.
Quale emozione primordiale si scatena quando balli?
Comune a tanti, il senso di libertà, il che è vero. Ma per quel che mi riguarda, il concetto di essere di libero, mi estranea dal mondo, dai problemi e dai pensieri ordinari. Esisto solo io.
Quando sali su un palcoscenico a cosa pensi? Sei ansioso?
Tantissimo, l’ansia mi accompagna sempre durante i miei spettacoli, e gliene sono grato, poiché quella “buona” ti fa pensare a ciò che devi fare in quel momento, ti fa concentrare. Se non ce l’hai, subentra quel senso di onnipotenza che ti porta regolarmente a sbagliare, invece un pizzico di tensione ansiogena ti porta a riflettere maggiormente.
Il tuo target di riferimento?
Gli adolescenti ci seguono tanto, specialmente durante le competizioni. Ed è proprio durante le “battles” che le nuove leve pongono l’attenzione sul proprio modello di riferimento.
Invece il tuo modello di riferimento nell’arte della breakdance?
Sin dal principio del mio percorso mi sono sempre ispirato ai kings della break, in particolar modo allo stile koreano e nipponico. Però anche personaggi nostrani mi hanno donato l’esempio e forza psicologica per andare avanti, facendomi crescere professionalmente, quali Gabriele Omed, Peppe Cacio, Gabriele Walrus e Danilo Rohan.
Se Matteo Zoe, non avesse fatto il ballerino, cosa avrebbe fatto?
Io ho cominciato a ballare post diploma e nonostante con il ballo abbia speso gran parte del tempo a disposizione, ho sempre cercato di seguire corsi di formazione professionale per poter arricchire scolasticamente il mio curriculum, poiché seppur vivo di quello che poi per me è stata una sensazionale scoperta, il futuro è incerto ed è meglio non farsi trovare impreparati.
Tra dieci anni come ti vedi?
Mi auguro di restare in tal ambito con la mia ventennale esperienza nel percorso didattico dei più giovani.
Ad inizio intervista mi parlavi di un certo Raffaele Ground, quando vi siete conosciuti?
Casualmente cinque anni fa in una palestra. Periodo buio per entrambi, allenamento dopo allenamento, sfida dopo sfida, oltre che colleghi, nel contempo si è creato questo forte legame di amicizia.
Salve Raffaele, perché Ground?
Non c’è una ragione etimologicamente strategica, 4 anni fa ho deciso di associare il mio nome a “Ground”, pavimento, perché il piano era il mio unico sfogo, mi faceva stare bene.
Entrambi insegnate ai giovanissimi, cercate di dare una spinta a coloro che vengono in palestra, ai più timidi e riservati, che si sentono estranei alla società?
Zoe: La cultura hiphop principalmente secondo noi è abbracciata e scelta da chi vive un disagio personale o /e sociale, non necessariamente economico. Ti da la possibilità di uscire dal tuo “ghetto” personale.
Ground: Oggi chi si avvicina alla break, ha a disposizione noi, le palestre, le sale prove. Fino ad un decennio fa era una disciplina colma di pregiudizi su chi la praticasse e/o ne fosse affascinato. Io da ballerino e maestro, ho messo su questa struttura la Street Art Dance da circa 3 anni con sacrifici, tempo e cura. Ho notato che la maggior parte dei miei allievi non ha amicizie, mi racconta che di non avere amici con cui potersi confidare, e con il ballo riescono a dare libero sfogo ai loro pensieri. A piccole allieve vengono posti quesiti, “Sei femmina, balli breakdance?”. Troppi preconcetti stupidi a mio avviso, siamo nel 2017 diamoci una smossa.
Ground alleni i ragazzi, quali sono i valori che cerchi di trasmettere?
In primis tengo a precisare che non voglio che i miei allievi associno il mio nome a quello di un insegnante, io sono Ground, un amico, un fratello con qualche anno in più di esperienza rispetto a loro, che continua a studiare, che non smette di esercitarsi. Io provo a trasmettere le stesse sensazioni di quando ballo io, con lo stesso amore. Do ai miei ragazzi possibilità che a me sono state negate, organizzando workshop e stage con bboys di fama nazionale e internazionale, quali Zoe, Spak ed Omed.
Però, attenzione, i maestri li scelgo con cura, insegnanti si, ma che impartiscono il loro sapere con il cuore, e non solo perché sono famosi nell’ambito della danza e soprattutto per soldi.
Bboy e titolare della Street Art Dance, genitori troppo presenti o assenti nelle diverse attività dei tuoi alunni?
La mia è una battaglia personale, cerco di far capire sia agli allievi ma soprattutto ai genitori che per la break ci vuole tempo, come in qualsiasi altra disciplina. Fare lo stesso esercizio per mesi, serve a potenziarne il movimento, invece spesso è visto come un insulso alibi da rinfacciarmi, addossandomi colpe del mio non saper fare e per tal assurda causa ho perso degli ottimi allievi. Il tutto e subito non porta a validi risultati e questo vale anche nella break. Non tollero quando l’opportunità che do ai tanti ragazzi, viene presa sottogamba e con eccessiva superficialità. La leggerezza la esigo sono in sala, pretendo che siano liberi di esprimersi come meglio vogliano. La break non è solo capriole, è studio. Ci resto davvero male quando si assentano per un brutto voto. Alzo le mani e non mi permetto di paragonare la mia scuola all’istituzione scolastica, però quando si comincia un percorso bisogna farlo con coscienza e impegno.
Il sogno nel cassetto di Ground?
Più che altro è un desiderio. Un giovane formato dalla mia scuola, dai valori trasmessi, che sia un bboy o una bgirl, si faccia strada e diventi un nome nel mondo della breakdance. Per me sarebbe fonte di immensa soddisfazione personale.