Sei bambini in una cameretta giocano al virtual game proibitissimo sulla prima guerra mondiale e diventano per un po’ i loro avatar. Devono compiere una missione eroica, distruggere una fabbrica di armi chimiche (tema attualissimo, purtroppo, da almeno un secolo) tenendo in conto il fatto che il vento potrebbe portare le nubi tossiche sulla vicina città di Pola. Un gioco per grandi, in cui i bambini sono costretti a indossare i panni degli adulti senza essere ancora strutturati. E così si crea quasi un corto circuito spazio-temporale. Ne viene fuori un mix di cattiveria e tenerezza, di tensione e gioco, di violenza e paura. Ed è proprio questo il segreto del successo dello spettacolo ‘War Game’, scritto e diretto da Riccardo Scarafoni e Veruska Rossi con Guido Governale in scena al Teatro Ghione di Roma.
Sei ragazzini e sei adulti in scena, su piani diversi, separati da un velo che simboleggia la distanza tra mondo reale e virtuale. Una scenografia semplice e molto efficace, un gioco di luci e di ombre che alterna come se fossero due palcoscenici sovrapponibili la stanzetta dei ragazzi alle montagne dell’Istria dove si muovono gli arditi soldati agli ordini di un giovane ufficiale che seguono una guida di cui nessuno si fida completamente. In un riuscitissimo gioco di rimandi psicologici e emozionali il carattere e le paure dei bambini si intrecciano con quelli dei soldati. E così accade anche che le sofferenze degli adulti vengano lette con gli occhi dell’innocenza: “Sono tre anni che non vedo mia madre”, dice l’avatar-soldato. “Io non potrei stare tre anni senza vedere mamma…”, piagnucola, tenerissimo, il bambino che lo guida nel gioco virtuale.
Se i più piccoli sono una rivelazione per la capacità di recitare con naturalezza e di mantenere sempre altissima l’attenzione, gli adulti (tutti poco più che ventenni) sono la conferma che il teatro italiano ha le forze e le possibilità di rinnovarsi dal suo interno. E non ci stupiremmo di vedere qualcuno di questi ragazzi ‘catturato’ dalle serie tv sempre molto attente alle nuove leve (spesso bravissime e di certo economicamente molto appetitose).