Una stanza tutta per sé è stato per un’intera generazione, la mia, un brevario di coscienza femminile, uno stimolo imprescindibile ad occupare lo spazio che la società e la cultura, come donne, ci avevano negato a lungo. Virginia Woolf in quella stanza ripercorre le tappe di una storia lunghissima e di un risveglio delle donne alla consapevolezza del proprio destino, come realizzazione dei diritti, delle possibilità, dei sogni. Quest’anno ricorrono i 136 anni dalla sua nascita e niente, se non per poco, ne ha offuscato il valore sia come scrittrice che come simbolo di una rivendicazione al femminile ancora oggi tutta da assumere e completare. Scrisse: “Una donna deve avere denaro, cibo adeguato e una stanza tutta per sé se vuole scrivere romanzi”.
Nata a Londra nel gennaio del 1882, era figlia dell’alta borghesia intellettuale dei suoi tempi. Suo padre, Sir Leslie Stephen, era autore, storico, critico letterario e aveva sposato sua madre Mary Pattle Jackson, celebre modella di famosi pittori, entrambi in seconde nozze; ma nonostante questo, data la rigida regola vittoriana che impediva alle donne l’accesso agli studi, Virginia non aveva frequentato nessun istituto scolastico, ricevendo educazione dai genitori in seno alla famiglia. Giovanissima perse la madre e poco dopo il padre e la sorellastra Stella. Da qui ebbe inizio il primo crollo nervoso. Lei e la sorella Bell subirono inoltre abusi sessuali dai fratellastri e questo aggravò il suo stato provocando forti sbalzi d’umore e frequenti crisi depressive. Una moderna diagnosi parla di un disturbo bipolare seguito da psicosi.
Le donne dei suoi romanzi, protagoniste indiscusse della sua narrazione, da Gita al faro a Orlando, sono colte nel momento in cui la loro ferita d’anima si rivela per ciò che è, una inadeguatezza al mondo come ci è stato consegnato, uno stupore di fronte alla propria forza di ribellarsi alle soffocanti convenzioni di una cultura ostile, un viaggio nel proprio dolore di donna alla ricerca delle emozioni, delle idee, dei comportamenti che ci tirino fuori dalla prigione cui sembra condannarci il genere cui apparteniamo. Virginia ci insegna a farci carico del disagio, dello smarrimento, della ricerca inquieta di un senso del vivere che nasca direttamente da noi, ci insegna a conoscerci e riconoscersi in una sorellanza che richiede impegno, partecipazione, solidarietà. Ci mostra che il talento, persino il genio può nascondersi tra noi, ma dobbiamo essere capaci di riscattarlo dalla banalità della vita quotidiana, dai compiti di sostegno e assistenza di cui la natura femminile viene caricata fin dalla nascita.
Ci racconta, tra i tanti esempi, di una ipotetica sorella di Shakespeare, geniale come lui, che tenta quello che lui ha tentato, riuscendoci, ossia esprimere la sua genialità nell’Inghilterra vittoriana, mentre a sua sorella non viene data nessuna delle possibilità di cui lui ha potuto usufruire e finisce violentata e suicida, schiacciata dal peso inesorabile del mondo che non riconosce la sua genialità. Spesso lo sguardo della suicida Wirginia si è posato sul suicidio femminile, letto non come una mancanza di passione per la vita ma come un gesto di ribellione contro una società ingiusta che ha ripartito in modo iniquo tra i generi caratterisitiche, qualità, diritti.
Il suo stesso suicidio, avvenuto il 28 marzo 1941 a Rodmell, ha il marchio di una ribellione a un male di vivere che ha radici profonde nel suo essere donna, nonostante il successo come scrittrice. Virginia ci parla di quanto pesi alle donne ciò che il mondo pretende da loro, i mandati familiari e sociali sono così forti da convincerci d’essere sbagliate quando non corrispondiamo a determinati modelli del femminile, ci sentiamo fuori posto, inadeguate e persino nei legami più affettuosi, come quello di Virginia con suo marito, si insinuano forti disagi, sensi di colpa. Gli scriverà nella lettera lasciatagli prima di morire, sebbene sia cosciente dell’ amore di lui per lei, che la sua morte lo libererà di un peso, della cura verso di lei alla quale la sua depressione lo ha obbligato. “Carissimo, sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un’altra volta questi eventi terribili. E questa volta non guarirò. […] Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore. […] Se qualcuno avesse potuto salvarmi saresti stato tu. Tutto se n’è andato tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone siano state più felici di quanto lo siamo stati noi”.
Tradotta in cinquanta lingue, anche da grandi autori come Jorge Luis Borges, Marguerite Yourcenar, Cristina Ocampo, è oggi universalmente riconosciuta come una delle figure più importanti del XX secolo, non solo come scrittrice ma anche per il suo impegno civile nella lotta per la parità dei sessi. Innovatrice dello stile e della lingua inglesi, capace di utilizzare il flusso di coscienza e il monologo interiore alla James Joyce, alla Marcel Proust, alla Italo Svevo, ma facendoli propri e soprattutto spogliandoli della freddezza che caratterizzava l’autore dublinese e immergendoli in un contesto psichico di grande impatto emozionale nella costruzione dei suoi personaggi. Un intenso liricismo e virtuosismo stilistico animano le sue pagine capaci di riscattare dalla banalità qualsiasi tipo di tema, situazione, storia, personaggio. Abbandonando la scrittura tradizionale la Woolf accede a una modernità tutta sua, eliminando il dialogo diretto, la trama con la razionale distribuzione delle vicende narrate, spostando l’attenzione soprattutto verso l’interiorità del personaggio, divenendo una vera e propria maestra del dialogo interiore. Particolare è anche il suo modo di trattare il tempo, che non viene rappresentato come ordinata successione di ore, mesi, anni, come scorrere perenne, ma come un insieme disordinato e eterogeneo di momenti evocati dall’immaginazione e dall’associazione di idee. Si pensi ai pochi giorni de La Signora Dalloway, ai diversi anni di Tra me e l’altro, ai secoli di Orlando.
La sua fama, offuscata dopo la seconda guerra mondiale, rinverdì ad opera del movimento femminista degli anni Settanta, alla ricerca di modelli culturali che supportassero la lotta per la parità. E nessuno più di Virginia Woolf poteva e può farsi carico di tale investitura. Questa donna, questa scrittrice ha avuto la sua stanza tutta per sé e ha voluto che anche noi la avessimo, una stanza tutta nostra, fisica e mentale, in cui chiuderci dentro e navigare nel mare dei nostri desideri e dei nostri pensieri, un luogo di silenzio, di rinnovazione, di rispetto di noi stesse, un luogo da difendere contro qualsiasi invasione e controllo, dove sperimentare la libera coscienza, il libero pensiero, la libera espressione dei linguaggi segreti che ci nascono dentro. Non si è donne solo per il genere di appartenenza ma perché come donne ci riconosciamo e costruiamo usando l’ampia gamma delle nostre caratteristiche e capacità. Virginia è una di noi.