Il 27 luglio del 1890 ad Auvers-sur Oise, Vincent Van Gogh come ogni mattina si appresta a uscire, ma questa volta non si carica il cavalletto sulle spalle nè porta con sè i colori. E’ domenica e dirigendosi verso i campi, Vincent incrocia i contadini ben vestiti che si dirigono in paese e a Vincent non interessano gli sguardi che gli rivolgono.
Si inoltra nei campi fino a giungere a una buca dove viene raccolto il letame per concimare, vi si sdraia sul fondo, estrae una pistola che si era fatto prestare “per scacciare i corvi” la punta sul ventre e spara… poi lancia lontano da se la pistola, che non verrà ritrovata, attende di morire. Ma la ferita che si è inferta non è mortale. Resta sdraiato nel letame fin verso sera, quando infine, si decide a rialzarsi e a tornare alla locanda barcollante. Il locandiere chiama il medico del luogo che lo visita ma non ne ordina né il trasporto a Parigi né si adopera per un intervento più efficace della semplice medicazione. Vincent è dolorante ma è solo un pazzo che si è sparato. Sarà assistito solo dal fratello che è accorso dopo aver ricevuto un suo biglietto, senza nessun altro soccorso e senza che né il Dott. Gachet né altri intervengano.
Vincent muore due giorni dopo il 29 luglio 1890, senza aver mai saputo quanto il mondo gli sia debitore.
L’infanzia di Van Gogh, così come la sua esistenza tutta, non fu felice né gioiosa. Primo nato vivo di sei figli, gia da piccolo fu segnato dal trauma della sua nascita, per raggiungere la chiesa dove il padre Theodorus era pastore, passava per il piccolo cimitero annesso alla Cappella, dove faceva mostra una sepoltura con sopra inscritto il suo nome Vincent Van Gogh. Era il fratello nato morto esattamente un anno prima lo stesso giorno della sua nascita.
Essendo uno studente di scarso valore, smette gli studi e viene inviato a Londra presso una casa d’aste di parenti, il suo scarso senso degli affari gli nuoce, ma non gli impedisce di innamorarsi, non corrisposto di Eugenia Loyer, che lo rifiuta sdegnato. Vincent non era propriamente un bel ragazzo, con quel viso affilato e lo sguardo “acceso”. Il rifiuto lo farà cadere in una profonda depressione e gli da modo di coltivare il profondo senso religioso che cova dentro. Tornato in Olanda cerca in ogni modo di diventare “pastore” o almeno predicatore. Ci riuscirà, in qualche modo e sarà inviato nella regione mineraria del sud del Belgio nel Borinage, dove spaventato dalla miseria dei minatori, dona tutto se stesso al loro servizio, cibandosi di pane secco e utilizzando finanche i suoi vestiti per farne bende per medicare i malati e i feriti. Tanta abnegazione non viene condivisa dalla sede centrale che lo destituisce dall’incarico. Da quel momento Vincent nutrirà un odio profondo verso ogni credo organizzato.
Nessuno, se non il fratello Theo, ha amato Vincent e anche lui si è maltrattato e troppo. Si nutriva di poco e camminava moltissimo, a chi gli chiedeva perché camminasse sul lato al sole di una stradina di campagna, rispose che l’arte è fatica. La fatica, che ritrasse nella prima grande opera che ricordiamo ” i mangiatori di patate” ” In questo quadro si deve vedere che quello che stanno mangiando i contadini è frutto del loro lavoro e loro ne hanno diritto” scriveva al fratello Theo, l’unico che lo ha protetto anche da se stesso ed è stato il suo interlocutore.
Fino a che non si recherà a Parigi, i dipinti di Vincent avranno il colore della terra.
Si aggirava per Arles, armato di cavalletto e colori e quando arrivava la sera, si contornava il cappello di paglia di candele, per riuscire a vedere la tela e continuava a dipingere, finchè non era esausto. Questo strano olandese, schivo, scostante e poco propenso a socializzare e vittima di attacchi epilettici, convinse 84 solerti cittadini di Arles a firmare una petizione dove si suggeriva il suo allontanamento e ricovero presso il manicomio di Saint Paul de Mausole, appena fuori Saint Rémy en Provence. Vincent vi rimase poco più di un anno durante il quale dipinse come un forsennato, quasi più di un dipinto al giorno e nella piena maturità artistica, da li arrivano i suoi più grandi capolavori.
“Questa mattina dalla mia finestra ho guardato a lungo la campagna prima del sorgere del Sole, e non c’era che la stella del mattino, che sembrava molto grande.”
E’ prossima l’alba del 19 giugno 1889, Vincent osserva dalla finestra e descrive al fratello quello che ha visto, non farà solo questo, imbraccerà tela , cavalletto e colori e dipingerà uno dei quadri più belli che il genere umano possa concepire, regalandosi e regalandoci un’emozione che ancora dura e durerà per l’eternità. Quel cielo stellato, con Venere “molto grande” riempie l’anima di chiunque abbia occhi per vedere e anime per sentire, il flusso celeste e i colori come un fiume, ci trascinano nella stessa visione di Vincent e riconosciamo in lui un nostro fratello.
Amava ritrarsi, lo fece per ben trentasette volte, quanto gli anni della sua vita senza amore. I trentasette autoritratti si trovarono per una sola volta riuniti tutti insieme, nella casa del fratello Theo in Rue Lepic 56, al terzo piano. Vincent ebbe modo di specchiarsi per tutte le trentasette volte che si era visto, in ogni condizione e con ogni acconciatura, prima di ritirarsi in pensione a Auvers-sur-Oise per trascorrevi l’ultimo periodo della sua sfortunata vita.
A vederli tutti in fila si nota l’evoluzione artistica e la capacità di auto-analisi di Vincent, a guardare il primo e ultimo autoritratto, ci si rende conto di quanto l’accumulo di incomprensione e di disamore col quale era stato nutrito, ne avevano trasformato il viso e le intenzioni.
L’ultimo autoritratto ci consegna il volto di un “assassino” piuttosto che quello di un tormentato e sconfitto artista.
Nessuno voleva i suoi quadri, a nessuno interessava quella combinazione di colori che anticipava la modernità che ancora non si percepiva, è incredibile il seguito che Vincent ha avuto nel secolo successivo alla sua morte se paragonato al disprezzo e al silenzio pressocchè totale su tutta la sua opera.
Alla sua morte, il Dott. Gachet nemmeno li volle i quadri che Vincent gli aveva fatto, altri dipinti giacevano fra le cianfrusaglie del bar sopra il quale allogiava e vennero recuperati dopo molto tempo. Paragonati più alle cianfrusaglie di un trasloco che ai capolavori riconosciuti che tutti apprezziamo. Il destino di Van Gogh artista è non meno misero di quello di Van Gogh uomo.
L’unico quadro venduto in vita da Vincent Van Gogh fu ” il vigneto rosso “.
Venne sepolto ad Auverse sur Oise nel piccolo cimitero, in una tomba senza pretese. Solo dopo la morte del fratello Theo, l’anno successivo e cominciando a essere riconosciuto il valore dei suoi quadri, la cognata, moglie di Theo , ebbe l’idea di riunire insieme nello stesso cimitero i due fratelli, che ora riposano insieme in un angolo da loro soli occupato.
Ho seguito le tracce di Vincent da Parigi ad Arles fino a Saint Remy e poi ad Amsterdam. Alla fine di questo “pellegrinaggio” posso dire che il suo spirito aleggia ancora a Saint Remy, dove non c’è nessun suo dipinto, ma solo i posti e le aiuole che lui aveva forsennatamente e passionalmente dipinto. Vincent odiava gli olandesi e non avrebbe di certo voluto che la sua opera finisse ad Amsterdam, aveva poco da spartire con gli impressionisti e ora ne condivide spazi al d’Orsay ed è spesso confuso con loro, di certo non avrebbe voluto essere associato alla città di Arles che in malo modo lo respinse. Forse solo a Saint Remy, visse un periodo di relativa serenità ed è lì che ancora è possibile incontrarlo, lì dove dipinse i suoi iris e i suoi contorti rami di mandorlo, lì dove vita e pittura si mescolarono talmente tanto da non lasciargli spazio per altro. Quando a causa di alcune sue intemperanze gli fu proibito di uscire, non si scoraggiò e dipinse copie dai maestri che amava.
Ed è così che lo vidi la prima volta, in una saletta del Guggheneim a Venezia che volgeva lo sguardo verso i visitatori, mentre girava in tondo nel cortile di una prigione prigione.