In questa terra argentina dove molti sono convinti di essere solo scesi dalle barche, ossia discendenti dagli Europei che, dopo aver attraversato l’oceano, colonizzarono il paese, andare in cerca delle tracce delle etnie autoctone che abitarono queste terre è un viaggio che apre un mondo. Siamo tre donne, due italiane e un’ argentina, che si avventurano in macchina in strade difficili e deserte, partendo dalla città di Mendoza, famosa per i suoi vini, ai piedi della Cordigliera delle Ande, verso la zona nordovest delle provincie di San Luis e Cordoba dove l’etnia dei Comechingones ha lasciato tracce della sua storia e della sua cultura. Siamo in cerca di silenzio, di natura incontaminata ma anche di storie, popoli, leggende. Sappiamo che cinquecento chilometri ci aspettano attraverso luoghi disabitati e desolati, ma la strada ugualmente ci sorprende, inquietante solitudine dei grandi spazi dove per ore non incontri nulla, né una stazione di servizio nel caso ti finisse la benzina né un luogo di ristoro per una bibita o un caffè. Per fortuna ci siamo portati da casa panini e scorte d’acqua. Ci muoviamo con una carta approssimata, del resto anche una più precisa servirebbe a poco, visto che le indicazioni su strada sono scarse e non portano nessuno dei nomi che avevamo come riferimento.
Eppure miracolosamente arriviamo alla prima tappa del nostro viaggio, la cittadina di Merlo, un centro di grande richiamo turistico ai margini delle montagne boscose dove ci addentreremo successivamente. Riposiamo un po’ in albergo e poi ci immergiamo nella folla che passeggia per la Avenida del Sol, la strada degli alberghi, dei bar, dei locali, dei ristoranti, dei negozi, del passeggio collettivo. È ampia, luminosa e stranamente silenziosa nonostante la folla, la genta sussurra, non grida, si muove con una pacata eleganza, meraviglioso rifugiarsi dopo tanto deserto in una città che non ti stanca.
Il nostro albergo si chiama Mirasierras e dai suoi luminosi finestroni vediamo le sierras (le montagne) sovrastarci e cambiare colore nelle diverse ore del giorno. Ci siamo segnati i luoghi che vogliamo visitare. Per prima cosa ci arrampichiamo fino al Belvedere che sovrasta la città e la vallata che la racchiude. Man mano che saliamo la città rimpicciolisce fino a sembrare un piccolo presepe e dal belvedere la valle si apre sotto di noi sorprendendoci per la varietà dei suoi verdi, dei suoi declivi, delle sue pietre che assumono forme sempre diverse sotto la luce o mentre ci spostiamo lungo il costone o quando di colpo il cielo fino a un momento prima azzurro e libero si copre di nuvole. Il piazzale del belvedere è pieno di bancarelle per turisti poco esigenti e tra tanta paccottiglia notiamo solo qualche piccolo oggetto interessante. Ma quello che ci attira soprattutto in questo Mirador del Sol è il paesaggio sotto di noi, questa valle di Concarán, a 796 metri sul livello del mare, alle falde occidentali della montagna dei Comechingones.
Sono giorni di tarda estate in questo emisfero Sud ma il microclima che in ogni stagione protegge questi luoghi dagli eccessi, d’estate e d’inverno, ci regala il piacere di camminare senza afa, anche nel pieno centro di Merlo, considerata la città con la migliore qualità ambientale del paese. Con i suoi approssimatamente 18.000 abitanti si mostra come un esempio equilibrato di coabitazione umana che attira ogni anno non solo residenze estive ma anche stanziamenti stabili dal resto del paese. La sua crescita demografica infatti è dell’84% a livello nazionale dall’inizio del XXI secolo. La montagna dei Comechingones protegge la città dalle correnti di aria umida che provengono dall’Atlantico e dagli elementi contaminanti che trascinano nell’attraversare la pampa umida, agendo come un filtro naturale che lascia l’aria libera da ogni inquinamento. E per noi che veniamo da una città di un milione e centomila abitanti, costruita in una conca nel deserto, senza venti che disperdano i fattori inquinanti, in cui è possibile vivere solo perché l’ingegno umano l’ha trasformata in una città giardino, camminare per queste strade ci fa sentire in un eden d’aria pulita cui non siamo abituati.
Ci attira nella città La casa del poeta , antica dimora, oggi museo, del poeta Antonio Esteban Agüero, la gloria locale, di cui non conoscevo neppure l’esistenza; perché viaggiare significa anche fare i conti con la propria ignoranza dell’infinito talento che abita il mondo, al di fuori del comunque sempre ristretto ambito delle proprie conoscenze. È una casona bianca, con un volo di rondini nere dipinto sulla facciata, di architettura spagnola, con tutte le stanze che convergono in un patio arricchito da un pozzo al centro e da tante piante e fiori. Il modello costruttivo è senz’altro l’antica casa romana che gli Spagnoli hanno conservato più di qualsiasi altro popolo latino. Ci fa da guida un ragazzo un po’ impacciato ma il luogo è talmente suggestivo, sorprendente nella sua impostazione, un museo vivo dove si respira il poeta, la sua storia, i suoi versi ad ogni passo, che il suo impaccio finisce per essere riassorbito dall’interesse del nostro itinerario per le stanze dove il poeta ha vissuto. Tutto è di una semplicità quasi monacale che diventa raffinata bellezza nelle pareti dove sono scritti i suoi versi. Le sue parole cantano con appassionato lirismo l’amore per la sua terra e per la libertà della sua gente e i soffitti ornati con rami di albero e piccoli coloratissimi uccelli ci ricordano la definizione che il poeta diede di se stesso: “traductor de pajaros” (traduttore di uccelli).
Le stanze conservano ancora i vecchi mobili familiari, lo studio dove lavorava, la sua biblioteca. Vi sono concentrati documenti, lettere, opere pittoriche che accompagnano i suoi testi, frammenti dei suoi scritti, tra i quali la corrispondenza con Pablo Neruda con il quale solevano salutarsi in versi e sonetti che rivelano i sentimenti mutui di affetto e stima. La casa museo del poeta Agüero parla per se stessa dell’ autore di un’opera piena di amore incondizionale verso la terra che lo vide nascere e verso gli uomini della sua epoca di cui sostenne la lotta per i propri diritti ovunque questi venissero minacciati.
La semplicità del suo tavolo di lavoro e la sua stanza da letto contrastano con il titolo di Dottore Honoris causa che dopo la morte gli ha decretato l’Università di San Luis. Nel nostro percorso il poeta ci accompagna con la sua “Cantada del algarrobo” (l’albero del carrubo), i cui versi vengono riportati sui muri di calce bianca delle stanze che attraversiamo. Lasciamo la casa, stupite per come in un piccolo centro come questo abbiano organizzato un museo di tale livello, che servendosi anche di interventi adiovisuali, è stato capace di portarci, come rare volte è accaduto, dentro l’anima di un poeta. All’uscita ci resta dentro una sua frase “Los poetas existen para que todos puedan entender la realidad que nos rodea y expresar nuestros propios sentimientos” (I poeti esistono perché tutti possano comprendere la realtà che ci circonda e esprimere i nostri propri sentimenti).
Il giorno dopo ci avventuriamo nella Sierras de lo Comechingones, un sistema orografico del centro ovest dell’Argentina tra la provincia di San Luis e quella di Cordoba. La falda occidentale forma la valle di Traslasierra e ad Est la valle di Calamuchita. Molti ruscelli scendono da queste montagne formando cascate e grandi pozze d’acqua fredda cristallina dove è possibile immergersi con infinito piacere. Lo abbiamo fatto nel ruscello Piedra Blanca circondate da miriadi di farfalle gialle, arancio, nere che non sembravano temere la presenza umana. Intorno a noi il bagliore delle pietre bianche, la fitta vegetazione e il silenzio interrotto solo dal gorgogliare dell’acqua tra le pietre ci ha regalato momenti di bellezza e pace assolute, così come raggiungere il luogo che si chiama Pasos malos ha messo alla prova l’energia delle nostre gambe e del nostro respiro. Nelle escursioni tra le montagne della zona, altri ruscelli e cascate ci hanno accolto restituendoci un insolito contatto diretto con la natura. In alcuni di questi luoghi è possibile dedicarsi al “turismo avventura”, attraversando rapide o praticando il perapendio e il ciclismo e motociclismo di montagna.
Quando nel secolo XVI arrivarono in queste terre i conquistatori spagnoli gli abitanti della zona erano i barbuti Comechingones che ben presto si mischiarono coi dominatori dando origine a un tipo chiamato criollo dal quale già nel secolo XVII sorsero i “Gauchos serranos”.
Secondo il racconto dei conquistatori, utilizzavano la parola Comechingón come grido di guerra che incitava a uccidere il nemico. Erano abilissimi nell’uso di arco e frecce e in guerra vestivano collari di cuoio e si dipingevano una metà del volto in rosso e l’altra in nero. Erano dediti all’agricoltura, alla raccolta di frutti, all’allevamento e alla caccia. Vivevano in cavità sotterranee con piccole entrate, di grandi dimensioni per ospitare più famiglie. I legami familiari erano molto forti e a comandare gruppi di famiglie legate tra loro c’era un cacique (capo) la cui carica era ereditaria. Tra i popoli aborigeni dell’Argentina è quello con maggiore ricchezza pittografica. Ci ha lasciato più di 1000 opere di arte rupestre, incisioni e disegni all’interno di grotte e caverne.
Andiamo a visitare uno di questi siti. Nel mezzo del bosco si eleva un grande altare di pietra bianca su cui si pregava la divinità e si facevano sacrifici e a poca distanza un gruppo scultoreo appoggiato a una montagnola di pietre, rappresentante due forme stilizzate e simmetriche, e al centro un mascherone, forse immagini di divinità o sacerdoti degli antichi riti.
Qui è facile capire l’importanza della pietra che la montagna regala a piene mani, in infinite varietà, un’esplosione di forme e colori sorprendente. Lungo la strada che porta a questi luogi si vendono queste pietre cariche di mistero e magia, non possiamo fare a meno di comprarne alcune, sembrano piccoli gioielli tanto brillano le venature d’argento e d’oro in queste schegge strappate alla terra.
Per giorni le montagne ci accolgono con un cielo terso su di loro o gruppi di nuvole ammassate sulle cime, camminiamo lungo scarpate e sentieri che sembrano non portare a nulla e invece di colpo ci aprono un mondo di alberi sconosciuti, di fiumi trasparenti, ci esigiamo di camminare anche se messe a dura prova dai pendii, dagli arbusti che occupano il cammino, dalle rocce, ma sempre dopo la fatica c’è quel momento di pura contemplazione e pace che ricompensa di tutto. A volte nella strada incontriamo qualche agglomerato di case, qualche chiesetta bianca, quasi tutte dedicate alla Vergine di Lourdes, Fatima o di Lujan, una libreria con dipinta sul marciapiede davanti la “Rayuela” (il gioco della campana) di Cortazar, un casa di tronchi adibita a ristorante dove ci fermiamo a mangiare pietanze squisite che una donna gentile ci serve regalandoci anche la sua storia, altre costruzioni in tronchi che espongono un artigianato originale e pieno di colori, siano stoffe, ceramiche, mantelle, ponchos, borse, dove vorremmo attingere a piene mani, ma decidiamo di prendere solo un oggetto per una: una mantella azzurra, uno zaino variopinto, una fioriera di ceramica. La macchina già comincia ad essere piena dei reperti di questo viaggio e anche le nostre case sappiamo essere invase dalle tracce concrete dei viaggi passati. Quindi decidiamo per la morigeratezza; solo con gli occhi e con le foto faremo il pieno di questa appassionante esperienza.
L’ultima tappa è la cittadina di Mina Clavero, in provincia di Cordoba, centro turistico della valle di Traslasierra, il cui nome deriva da un’importante miniera che apparteva alla famiglia Clavero, molto nota nella zona. Famosa per i suoi bagni terapeutici, dovuti alle proprietà sanatrici delle sue acque, ci offre spiagge lungo il fiume che l’attraversa e che ha il suo stesso nome, sulle cui rive, persino in piena città, i suoi abitanti d’estate prendono il sole, si bagnano, si incontrano nei numerosi bar e ristoranti che sorgono lungo il suo percorso e dove di notte spettacoli di ogni tipo li allietano. Anche noi per alcuni giorni ci godiamo la spiaggia, il passeggio, la movida notturna e anche qui i bellissimi dintorni di valli, montagne e boschi solcati da fiumi incontaminati, prima di riprendere la strada del ritorno.
E il ritorno, per quanto lungo, quasi sette ore, è soprattutto silenzio per mantenere il più a lungo possibile dentro di noi quel legame stretto con la natura che questo viaggio ci ha permesso.