Viaggio in Patagonia, I Parte. Sono partita per la Patagonia e la Terra del fuoco con il libro di Bruce Chatwin in valigia, letto e amato nella giovinezza quando neppure potevo immaginare che un giorno ne avrei ricalcato le orme. La Patagonia nell’immaginario di un Europeo è un luogo lontanissimo, sterminato, selvaggio, un’esperienza estrema, una terra dove molti si sono rifugiati cercando la vastità e la solitudine che solo lei può regalare. Chatwin la racconta non con l’interesse di un geografo ma con quello di un viaggiatore attento e curioso dei luoghi ma soprattutto delle persone e in quest’uomo patagonico così diverso e a volte improbabile, più sorprendente di quanto qualsiasi esotismo permetta di pensare, sembra trovare la sua stessa identità di uomo e di nomade e la sua scrittura ricostruisce con folgoranti frammenti un mondo affascinante e complesso, eccentrico universo di allucinazione, solitudine, esilio e rarefatta bellezza. Con le emozioni di questo libro dentro ho organizzato il mio viaggio, alternando tappe in aereo con altre in macchina, per poter sfruttare al massimo il mese a mia disposizione.
Si parte con volo da Buenos Aires e la prima tappa mi porta a Puerto Madryn, davanti alla Penisola di Valdés. Ci arrivo al tramonto, lascio le valigie in albergo e m’incammino verso il lungomare. Di lontano sento una musica e sorprendentemente Puerto Madryn mi riceve con una Chacarera, danza popolare argentina che un numero incontabile di coppie sta ballando sulla spiaggia, non è un evento, niente di programmato. Così mi accoglie la Patagonia, con questa danza di corteggiamento spontanea che fa rotare nell’aria i fazzoletti bianchi che le coppie si scambiano al ritmo dei passi. Un tramonto cremisi infuoca l’orizzonte e il mare è una tavolozza di sfumature scarlatte e azzurre che si inseguono sulla superficie. Un profondo respiro d’emozione, un aperitivo e poi la ricerca di un ristorante per la cena dove mangerò il primo cordero (agnello) patagonico del mio viaggio, una prelibatezza cotta alla brace che ti si squaglia in bocca.
Il giorno dopo mi aspetta un’escursione a circa 50 Km nella baia di Puerto Piramides per l’avvistamento delle balene. In barca coi miei compagni d’avventura ci inoltriamo in mare verso l’imboccatura del golfo, ci sembrano così fragili le imbarcazioni a confronto con la mole di queste enormi creature marine, ma i marinai ci rassicurano che le balene se non sono provocate non sono aggressive e sanno muovere con infinita delicatezza e eleganza la loro mole al punto di sfiorare quasi le barche senza toccarle. E poi le vediamo, queste montagne grigie che si ergono dall’acqua, più grandi di come le avevamo immaginate, il loro corpo in uno slancio possente esce quasi tutto dal mare per poi rituffarsi tra le onde come se non avessero peso in un volo che ci lascia senza fiato. E ci viene in mente Moby Dick di Herman Melville e i cacciatori di balene e tutta la simbologia che si portano dietro. Ero dalla parte della balena leggendo il libro e lo sono ora, di fronte a questo spettacolo della natura che richiama il suo diritto ad esistere. La loro caccia è ormai illegale in molti paesi, del resto il loro pregiato olio, usato per riscaldare e illuminare prima dell’avvento della luce elettrica e della scoperta del petrolio, non è più necessario alle nostre esigenze quotidiane. Eppure ancora in paesi come il Giappone le cacciano.
La barca si agita con l’acqua che ad ogni spettacolare tuffo gorgoglia intorno a noi, stiamo sospesi tra la paura di finire in mare e la visione di quella magnifica danza che anima la baia. Ma su tutto, su noi bagnati zuppi, nonostante le giacche a vento impermeabili, vince l’emozione di questo incontro vissuto in un silenzio assoluto, rispettoso dove solo lo sciabordio della onde e i suoni delle balene accompagnano il nostro accelerato battito cardiaco. Quei corpi lucidi, possenti, agili, di una bellezza commovente mi fanno sentire piccola ma in sintonia con la loro grandezza, una creatura come le altre nella storia millenaria della natura. Senti i tuoi limiti umani e insieme senti di far parte di qualcosa che ti trascende e ti colloca in un senso più alto del vivere.
Siamo nella penisola di Valdés, situata lungo la costa atlantica nel settore del Mare Argentino della provincia di Chubut e buona parte del territorio che attraversiamo è arido e vi si sono formati alcuni laghi salati, il più grande di quali si trova a 40 metri sotto il livello del mare. Proclamata Patrimonio dell’umanità dell’UNESCO nel 1999, è un’importante riserva naturale. Mentre viaggiamo lungo le sue coste questa varietà ci sorprende ad ogni sosta. Elefanti marini, leoni marini sudamericani, pinguini e foche sono stesi al sole lungo le tante spiagge che ci soffermiamo ad ammirare dall’alto di promontori scoscesi. E ancora nelle baie che si susseguono, specie nel Golfo Nuovo e nel Golfo di San José, possiamo avvistare la balena franca che tra maggio e dicembre migra in queste acque per l’accoppiamento e il parto, perché qui le acque sono più calde e calme e più al largo, nel mare aperto oltre la penisola, avvistiamo anche le orche.
Quando ci addentriamo con la camionetta nella penisola animali per noi inconsueti come i nandù, i guanachi, i maras si muovono lungo i bordi delle strade che percorriamo e una incredibile varietà di uccelli, esistono qui almeno 181 specie differenti, di cui molte migratorie, ci volano sulla testa, il loro frullari d’ali, i colori intensi delle loro piume, i loro canti che con differenti suoni compongono una unica persistente melodia ci accompagnano. Questa terra impone il silenzio per poterne ascoltare la voce che mille voci compongono. Nei viaggi di spostamento incontriamo sterminate “estancias”, tenute agricole dove oggi si pratica soprattutto l’allevamento delle pecore che gauchos instancabili portano al pascolo nelle pianure a perdita d’occhio. In qualcuna di queste ci fermiamo, assistiamo all’esquila (tosatura) delle pecore, mangiamo ancora squisita carne alla brace.
Giorni dopo il nostro arrivo ci spostiamo nella città di Calafate, base abituale per esplorare la regione dei grandi laghi, che sorge sulle rive del Lago Argentino, il più grande (ha una superficie di 1415 Km) e il più australe dei laghi patagonici, nel settore sudest della provincia di Santa Cruz, al limite col Cile. Il lago ha un corpo principale e due lunghi e irregolari bracci che si estendono per quello che viene chiamato Parco nazionale I Ghiacciai. Per la sua imponente bellezza naturale è una meraviglia unica al mondo e l’UNESCO lo ha proclamato nel 1981 Patrimonio mondiale dell’umanità. Il Parco offre uno scenario di montagne, laghi, boschi incontaminati e include una vasta parte della Cordigliera delle Ande coperta di neve e gelo ad ovest e l’arida steppa patagonica ad est. Il suo nome è dovuto alla presenza di numerosi ghiacciai che si originano nel grande Campo di Gelo Patagonico, il manto di ghiaccio più grande del mondo dopo l’Antartide. La cosa sorprendente di questo manto è che di solito nel nostro pianeta può incontrarsi a più di 2500 metri sul livello del mare mentre nella provincia di Santa Cruz ha origine a 1500 metri di altitudine e scende fino a 200 metri sul mare, permettendo agli uomini un accesso e una visione unica al mondo.
L’escursione ai ghiacciai parte da Calafate con un battello che contiene un centinaio di persone, visitatori da tutto il mondo per vedere qualcosa che in altre latitudini sarebbe inaccessibile, il mondo dei ghiacci in tutta la sua sfolgorante bellezza. Sebbene sia estate, del resto in inverno la zona non è visitabile per le avverse condizioni climatiche, ci consigliano di coprirci molto bene, con equipaggiamento da alta montagna. Per fortuna seguiamo il consiglio perché una volta imbarcati nessuno vuole restare nel salone caldo e accogliente del bar. Tutti cercano di accaparrarsi le postazioni sul ponte scoperto lungo il parapetto esterno per non perdersi neppure un minuto di uno spettacolo unico e poter scattare foto dalla posizione più favorevole. Man mano che la piccola nave si addentra nel lago la temperatura va scendendo sensibilmente e sulla superficie del lago compaiono piccoli iceberg che quasi ci circondano e che solo l’abilità dei consumati piloti marittimi riesce ad evitare. Ho sempre pensato che il ghiaccio potesse essere solo bianco o al massimo trasparente ma quelle masse che navigano sul lago per effetto della rifrazione della luce assumono colori che percorrono tutte le sfumature dell’azzurro e del rosa, sembrano ballerine che danzino leggere sull’acqua. Sul ponte tutti ammutoliamo. Poi il freddo ha la meglio e a turno scendiamo al bar per un ponche caldo che ci permetta di ritornare all’aria aperta senza diventare lividi.
La navigazione prosegue e da lontano vediamo il fronte del Ghiacciaio Upsala, non ci pare così imponente come ce lo avevano descritto ma man mano che la nave avanza lo vediamo ingrandirsi a vista d’occhio e quando finalmente siamo ai suoi piedi la sensazione è di essere dei lillipuziani davanti a un gigante. La nave si ferma a una distanza di sicurezza per permetterci di ammirare senza pericolo lo spettacolo dei blocchi di ghiaccio che si staccano dalla parete. La giornata è tersa, soleggiata, il cielo di un azzurro intenso e libero di nuvole, condizione ideale per ciò che vedremo. Cominciamo a sentire degli scricchiolii, dei rimbombi che vengono dal cuore del ghiacciaio e davanti a noi dalla parete progressivamente si staccano pinnacoli di ghiaccio che sprofondano in acqua facendo ballare la nave e poi miracolosamente riemergono come luminosi cristalli che abbiano catturato tutti i colori dell’arcobaleno, un trionfo di azzurri, viola, rosa che giocano dentro il bianco e si dorano alla luce del sole, un miracolo di bellezza, di potenza, di grazia che la natura ci regala. I frammenti di ghiacciaio pian piano scivolano lungo le acque del lago, una lenta processione di fate che si allontana da noi. Ancora questa terra ci impone il silenzio, il raccoglimento in noi stessi, la contemplazione ammirata di una natura che ci sorprende. Facciamo ritorno alla base rinchiusi nel salone del bar, a riscaldarci, a scambiarci emozioni, stralci di vita, a radicarci dentro quello che abbiamo vissuto.
Nella zona sud del parco, nei giorni successivi, visito il Perito Moreno, il ghiacciaio più famoso del Parco che deve la sua fama al continuo movimento che produce un fenomeno ciclico di avanzamento e retrocessione con distacchi di massa gelata dal suo fronte che producono effetti spettacolari. Lo si raggiunge in camionetta fino a un belvedere che si affaccia sulla sua parete. Non si presenta compatto come l’Upsala, ma in mezzo mostra un grande arco da cui si vede l’acqua ed è quell’arco che in un determinato periodo dell’anno si spezzerà precipitando. Migliaia di persone ogni anno per la data prevista del distacco si attestano su questo belvedere e aspettano di assistere al fenomeno. Non è questa l’epoca e quindi non mi aspetto che si rompa davanti ai miei occhi. Mi piace contemplarlo nella sua imponente elganza, sapere che è vivo, si muove, ci sta raccontando la sua storia millenaria e io mi sento di tutto questo una spettatrice privilegiata e devota.
Più della metà del mio viaggio è trascorsa percorrendo la Patagonia, le sue distese sterminate, le sue grandi differenze climatiche e di territorio, mangiando il suo cibo, parlando con la sua gente ospitale, gentile, orgogliosa del suo territorio e delle sue tradizioni.
Riprendo il cammino verso la parte più a sud del Continente, la mitica Terra del fuoco.
(Continua)