Dino Buzzati pubblicava 50 anni fa, nel 1966, come ultimo racconto lungo della raccolta “Il colombre”, “Viaggio agli inferni del secolo”. La sua fama di narratore già consolidata non gli aveva fatto abbandonare l’attività giornalistica al Corriere della sera, luogo di lavoro per molti anni e fonte di ispirazione per i suoi testi.
Dino Buzzati può essere considerato come il più attendibile “cronista” del mistero nella narrativa italiana del secolo passato, rappresentando la speciale voce di una letteratura fantastica che sapeva parlare attraverso la cronaca e l’ironia. Con questi strumenti il nostro autore ha definito e raccontato la sua visione del mondo e dei mondi possibili, aprendo spazi nuovi nel linguaggio e nella iconografia del fantastico.
Ci ha introdotto in una modernità che, tra disperazione e sorriso, ci rivela l’inconsistenza di quella che crediamo la realtà unica e oggettiva come ce la mostra la nostra ingenuità sensoriale (la scienza stessa ci dice che il mondo non è come lo vediamo), costringendoci ad accedere ad altri sconosciuti livelli di realtà.
In lui infatti il fantastico scaturisce dalla cronaca di una quotidianità che apre improvvisamente un baratro in se stessa e poi lo richiude, inglobando inesorabilemente e per sempre lo specchio oscuro su cui si è riflessa e che la congela nel suo volto inquietante. Inoltre la sua scrittura rigorosa e limpida, affinata in tanti anni di giornalismo, oltre che spesso ironica, crea lo scarto necessario tra il linguaggio e la storia narrata che ci permette di percepirne gli sfuggenti imprevedibili orizzonti.
Il titolo stesso ci parla subito di Inferni, moltiplicando l’unicità dantesca, questi inferni sono anzitutto inferni della percezione, ad ogni uomo il suo, si costruiscono a modello di tutte le città, tutti gli incubi, tutte le perversioni, tutte le condanne, differenti per ognuno ma uguali nell’ineluttabilità del destino, nella ostinata somiglianza al proprio vissuto, le stesse strade, le stesse case, la stessa umana nullità e disperazione.
Impossibile leggere il testo buzzatiano senza pensare a quel poema che ha fondato nella cultura occidentale il concetto stesso d’inferno, La Divina Commedia di Dante e specialmente in questo caso, la cantica dell’Inferno.
Come in Dante, anche in Buzzati il viaggio è quello del proprio Io, dello scrittore stesso, nelle viscere della terra. Il racconto è in prima persona e Buzzati incarna in sé la figura del protagonista e del narratore, ma nell’ oggi di Buzzati non esiste mandato divino al viaggio e lo scopo non è la liberazione dal peccato e la salvezza eterna; nessun Virgilio lo guida come simbolo della ragione a percorrere i diversi gironi, né nessuna Beatrice attende tra i beati l’anima del poeta testimone del viaggio.
Si va all’inferno per dovere di cronaca e il cronista stesso domanderà “Niente Virgilio?”, consapevole che esiste una specifica tradizione su quel tipo di viaggio, ma anche che ciò che lo aspetta non assomiglia al viaggio dantesco se non nella sua trasgressione alle regole del reale. Ma lui non è Dante, è un uomo senza “verità universali”, dubbioso, con una visione destrutturata del mondo, lui abita e racconta frammenti di realtà impazzite che fanno cronaca ogni giorno a Milano. Il testo è diviso in otto brevi capitoli titolati.
Il primo degli otto capitoli si chiama “Un servizio difficile”. Buzzati, seduto davanti alla scrivania del direttore, si sente dire che deve fare un servizio sull’Inferno, la cui porta è stata scoperta durante i lavori della metropolitana milanese e che quell’Inferno non deve spaventarlo più di tanto dal momento che, dalle prime rilevazioni, sembra essere simile al nostro mondo.
Nel suo viaggio Buzzati scopre, come i suoi contemporanei, come Sartre, come Calvino e altri, che l’inferno è solo lo specchio capovolto della nostra realtà, che l’inferno è qui ed ora, l’inferno siamo noi, raccontarlo e viverlo ci immerge nella nostra condanna esistenziale, condanna che in Buzzati si carica di tutte le tematiche dell’attesa, della malattia, della solitudine, del viaggio, del limite, della morte.
Con linguaggio esatto e insieme suggestivo il nostro autore ci racconta con efficacia il confine fragile e allusivo tra la realtà che ci appare concreta e le realtà altre, possibili che la dimensione fantastica mette in moto e che l’uomo contemporaneo si trova a vivere come segno distintivo di un “Io” dissolto, di un’ immagine irrisolta del mondo, nel vortice delle sue domande senza risposta, delle sue avventure esistenziali e delle sue ossessioni.