Un marketing gentile per la cultura
“Vendere o farsi comprare?” di Maurizio Luvizone è l’ultimo saggio dell’autore che inaugura il nuovo corso editoriale dello storico marchio Libri Scheiwiller, che dà ampio spazio alle pubblicazioni con tematiche più attuali. Il libro ha l’obiettivo di aprire un dialogo e una riflessione sull’economia dell’arte e dei luoghi culturali dell’Italia, introducendo un nuovo concetto e un’impellente necessità: ‘un marketing gentile per la cultura’.
Il libro di Maurizio Luvizone è una riflessione sullo stato del management della cultura italiana e sull’esigenza di cambiare approccio, orientando il marketing più verso il pubblico e meno alla vendita del prodotto. Nel suo libro Maurizio Luvizone sottolinea che la resistenza maggiore si riscontra tra gli intellettuali e gli studiosi, che considerano il marketing una minaccia, senza valutare che, un approccio orientato alla divulgazione e alla migliore fruizione della cultura da parte del pubblico, genera unicamente valore.
La cultura e il turismo sono settori strategici della nostra economia, settori su cui si deve investire, ma con uno sguardo diverso, cambiando prospettiva e accostandosi al nuovo analizzando le vecchie metodologie di marketing. In “Vendere o farsi comprare?” di Maurizio Luvizone, l’autore analizza le best practice di altri Paesi, confrontandole con le nostre per coglierne spunti e riflessioni utili a tutti, non solo agli addetti ai lavori.
Il libro è arricchito inoltre di diverse conversazioni con alcuni dei maggiori esperti italiani dei temi trattati ed è uno stimolo ad analizzare la situazione attuale per creare un nuovo modo di fruire la cultura nel nostro Paese.
Maurizio Luvizone è stato responsabile marketing e comunicazione di primari gruppi industriali e direttore di fondazioni e associazioni culturali, scientifiche, per la formazione e il fundraising. Alterna la sua attività di manager e consulente a quella di docente. Insegna Fondamenti di marketing culturale all’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova. Vive e lavora tra Genova e Milano.
Abbiamo avuto il piacere di scambiare alcune battute con Maurizio Luvizone e ci siamo fatti raccontare qualche dettaglio in più sul suo saggio.
VENDERE O FARSI COMPRARE? di Maurizio Luvizone
Iniziamo dal titolo. Perché si parla di marketing “gentile” per la cultura?
La cultura – per elezione, per storia, per economia – è “cosa” fragile, delicata: è necessario trattarla con cura. Per fare in modo che le organizzazioni e i prodotti culturali incontrino di più e meglio i loro pubblici non serve il marketing: è necessario un marketing per la cultura. Un marketing gentile che rispetti la fragilità della cultura ma che non transiga sulla sua missione di contribuire a creare ricchezza e sostenibilità per l’impresa culturale, felicità per i suoi pubblici, impatto economico e sociale sul territorio che la ospita. Un marketing gentile, quindi, ma non debole. Anzi.
Qual è il pubblico a cui si rivolge il suo libro? Gli argomenti trattati sono alla portata di tutti oppure è indicato prevalentemente per gli addetti ai lavori?
Questo è un libro che possono leggere tutti. È stato scritto, con un approccio divulgativo, pensando al pubblico, sempre più vasto, che segue i temi della comunicazione culturale e degli impatti (sociali, educativi, economici…) che genera la cultura aperta, accessibile e condivisa. Di marketing gentile mi piacerebbe discutere con i ragazzi di tutte le età: quelli con la vivacità di sguardo, pronti all’urgenza di cambiare passo e sempre orientati al culto del fuoco piuttosto che alla custodia delle ceneri. Ma vorrei confrontarmi anche con i molti intellettuali e studiosi (alcuni anche giovani) che difendono un’idea di cultura ferma, grave e autoreferente. Severi, ostili alla divulgazione, spaventati dal successo di alcune recenti forme di produzione culturale, considerano il marketing una minaccia, una “roba” buona solo per vendere dentifrici e merendine. Il libro, nel rispetto delle biodiversità, è rivolto anche a loro.
La pandemia ha registrato tanti accessi virtuali ai musei e alle mostre che si sono reinventate per mantenere sempre viva l’attenzione del pubblico sull’arte. Qual è la sua riflessione in proposito? Gli italiani hanno riscoperto l’arte oppure è stato solo un avvicinamento dato dalla circostanza?
Per raccontare un museo chiuso la virtualità va bene, benissimo. Ma ora è necessario trasformare il desiderio di cultura, confermato nel lungo e tragico periodo della pandemia dal successo del consumo digitale (teatro e musica in streaming, visite virtuali dei musei, conferenze e incontri in podcast…) in nuove – e forse diverse – abitudini di fruizione. Poiché a lungo negata, la pratica delle frequentazioni culturali “in presenza” va liberata, rieducata, adeguatamente stimolata e accompagnata. Forse grazie alle esperienze digitali, vedremo nuovi comportamenti, e forse anche nuovi pubblici. Ma la fenomenologia dell’esperienza non può essere digitale. Il digitale non è che una rappresentazione della realtà: questa può essere interpretata, integrata, “aumentata”, ma non surrogata. Nella fruizione della cultura l’esperienza non è sostituibile: l’arte vive di quella. A chi ha subito la fascinazione della visita virtuale dobbiamo far sapere che il museo, dal vivo, è ancora meglio.
In VENDERE O FARSI COMPRARE? lei specifica che bisogna cambiare prospettiva e prestare attenzione alla felicità del pubblico piuttosto che, esclusivamente, al successo del prodotto. Ci può spiegare meglio questa riflessione?
La vera missione dell’arte e della cultura è diffondere bellezza, distribuire felicità. Anche, e soprattutto, nei momenti più difficili della nostra esistenza. Musei, pinacoteche, teatri, festival… devono sentire l’obbligo morale, oltre che la convenienza funzionale, di soddisfare la domanda dei loro pubblici. E quindi essere orientati alla felicità di spettatori e visitatori prima che al numero di biglietti venduti. La felicità di un’esperienza culturale incrocia aspetti “alti” come conoscenza, formazione, inclusione, condivisione, produzione di valore. Ma la si costruisce anche dal basso, con le piccole ma fondamentali attenzioni per la qualità della visita del pubblico. In questa logica, parlando per esempio di musei, anche la didascalia di un quadro è importante. Lo è l’efficienza della biglietteria e del sistema di illuminazione e di climatizzazione delle sale, la cortesia e la competenza degli addetti, la qualità dei dispositivi di informazione, la disponibilità di aree di riposo, la coerenza del bookshop, la pulizia dei servizi igienici e – perché no? – la fragranza del croissant alla caffetteria.
Il saggio è ricco di contributi (Evelina Christillin, Giovanna Melandri, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, etc…). C’è uno spunto o un suggerimento che l’ha colpita maggiormente, e perché?
I contributi che ho chiesto, in forma di conversazione, ai maggiori esperti dei vari argomenti trattati sono tutti di altissimo livello. Se devo ricordare un passaggio che mi ha molto divertito è il punto in cui la professoressa Paola Dubini, docente Bocconi, una delle voci più autorevoli dell’economia della cultura, ci svela quale fu la vera ragione per cui scelse, da ragazza, di cantare in un coro. Le piaceva uno dei tenori! Il “discorso” culturale, anche quello più alto, talvolta prende spunto dalle piccole cose.
Con VENDERE O FARSI COMPRARE? c’è un messaggio che vuole lanciare al pubblico dei lettori?
Nessun messaggio, semmai un invito. Abituiamoci ad accostare cultura e salute, bellezza e salvezza. La filiera delle attività culturali chiede oggi giustamente di essere salvata dal disastro della pandemia, ma al tempo stesso, con la sua capacità creativa e produttiva, offre salvezza per il rilancio del Paese. Lo “scambio” , se ben gestito, non si ferma al livello terreno del risarcimento, ma va ai piani alti dell’investimento nella produzione di valore. Valore simbolico, certo, ma anche economico. Cultura come parte integrante del welfare, quindi, fattore strategico e “costituente” del bene-essere di individui e comunità. Da promuovere e distribuire in modo gentile.