Per chi non lo conoscesse, dico semplicemente che era un poeta sui generis, un dandy che aveva scelto di vivere ai margini della società. «Una casa vera e propria, il poeta Valentino Zeichen, non l’aveva abitando da mezzo secolo in una baracca appoggiata sulla via Flaminia. Nel suo Idroscalo un poco bohémien all’ombra di piazza del Popolo, un ricovero che potrebbe chiamarsi capanno, tugurio o casotto, Zeichen è stato benissimo: “Qualche volta mi è piovuto sulla testa, ogni tanto ho avuto freddo e qualche volta ho patito la fame. Ma la fame è amica. Penso di stare a dieta, mi tengo in forma, ragiono meglio”» (Gianfranco Isetta, Il poeta Valentino Zeichen è morto a Roma, in «Alganews», 6 luglio 2016).
Viveva un’esistenza unica per un poeta dei nostri giorni, alla bisogna, dove il paradosso era evidente, come si denota nei suoi versi, somigliante a quella lunga lista di poeti maledetti che la storia ci ha fatto conoscere. Nel caso di Zeichen non si tratta di un maledettismo interiore, esternato con gesti al limite della follia, ma di un maledettismo (ovvero, una provocazione) nei confronti di una società inospitale per un poeta, rifiutando qualsiasi lavoro non attinente alla poesia, rifiutando con sdegno una società di consumo, nel tentativo di essere unico in tutto, nel tempo che sfugge anche ai poeti, senza far mancare la sua voce e i suoi versi di puro sdegno nei confronti della società di consumo basata unicamente sul demone “denaro”, nel “circolo” della cultura italiana: «Si dice che la poesia / manchi di vero slancio, / che non sappia più volare / poiché non più sorretta / dai grandi angeli alati. / Che farci? È un mondo / di poeti atei che volano / preferibilmente in aereo, Poesia, in Casa di rieducazione, cit.».
Era nato a Fiume nel 1938 (ma la data, dicono, non è certa). Facendoci aiutare dalle parole di Valerio Magrelli, «dopo la guerra finì con la famiglia in un campo profughi accanto a Trieste. Alla misera vita da sfollato (quella che conducono tanti siriani), si aggiunse la morte della madre e il trasferimento a Roma, dove il padre, ex legionario dell’impresa dannunziana, divenne giardiniere del Comune e si risposò. Quanto al suo irrequieto figlio adolescente, lo spedirono in una casa di correzione a Firenze. Zeichen vi rimase tre anni, studiando da perito chimico e imparando come sopravvivere a un mondo ostile» (È morto Valentino Zeichen, un poeta dandy e paradossale, in «Repubblica.it», 5 luglio 2016).
La poesia di Zeichen parte da lontano, da una matrice barocca (o neobarocca) che, passando per i lineamenti surrealisti delle avanguardie storiche, riflette l’andamento dandy del poeta come provocazione paradossale che lo porta a seguire la via di ogni rifiuto al lavoro che non fosse quello di poeta (d’altronde fare il poeta è un lavoro, poco o per nulla remunerato, ma pur sempre un lavoro), per una conservazione liberatoria di nullatenenza. «Inutile cercare nei suoi testi l’effusione di un sentimento ? ci dice ancora Magrelli ? (oltre a quello, si è visto, delle scarpe bicolori). L’arte di questo scrittore preferisce delegare agli oggetti la traccia del soggetto. È una lezione che viene da lontano, dal Partito preso delle cose di Francis Ponge, ma prima ancora dai concettisti del Seicento, come l’amato Ciro di Pers, un poeta in cui Zeichen, orologiaio della parola, ritrovava il maestro del Tempus fugit» (cit.).
Si riteneva un conservatore delle cose, di una poesia rappresentativa di metafore: «Io sono il protagonista di Una Cena Elegante di Robert Walser. Un estraneo che arriva in un posto, si siede, si vede offrire cibo, sorrisi e sigari e poi va via senza che nessuno abbia veramente capito chi sia (…) Mi sono sentito così per tutta la vita (…) sempre e solo da ospite non pagante».