Mio padre è stato in America per ben 5 volte, negli anni tra il ’69 ed il ’75. La prima volta, nel febbraio ’69, mi ha lasciata che avevo un anno e mezzo ed è tornato che ne avevo tre, e di lui avevo perso ogni ricordo. Ma non è di questo che voglio parlare. No, di questo no, non amo i biografismi intimisti, sanno di cinema italiano contemporaneo. Moretti, Muccino, da chi lo vogliono, con le loro storie minime di tristi famigliole colpite dal dramma dell’incomunicabilità? Che poi, scava scava, alla fine il problema sono sempre le corna.
Non mi va di raccontare ‘sta roba troppo ammorbante: infanzie tradite, drammi psicosociosferici (nel senso che la psicologia e la sociologia le sfere pure ce le hanno riempite, con i loro determinismi e i loro etichettamenti, il loro descrivere come tutto dovrebbe essere e non è mai), aspettative deluse, progetti falliti…. Ma a chi, ancora, possono interessare, con quello che sta capitando in questo Paese e sull’intero Pianeta?
Eppure, l’oggetto che ho scelto mi piace, non può essere un caso che sia tra quelli selezionati e, contemporaneamente, tra quelli di cui più ho sentito il fascino nella mia intera (ormai lunga) vita. Ci deve essere una storia bella, semplice ma avvincente ad esso collegata che valga la pena di raccontare e di esser letta. Ancora non ce l’ho, ma confido nell’intuizione di Michelangelo: forse è lì, grezza, dalle pieghe del tempo celata, speriamo che si riveli presto, prima che scadano i termini per la consegna del testo.
Comunque, dall’America, mio padre mi portò uno stereoscopio. Ai tempi, era una rarità, il classico oggetto misterioso, e me ne accorsi dal successo che ebbe tra amici e parenti: i cugini facevano a ficozze per aggiudicarselo, sia pure per pochi minuti. In dotazione avevo ricevuto una serie di dischetti, scopro solo ora che si chiamano View-Master reel, due con Alice in wonderland e Cinderella della Disney, gli altri dedicati ai luoghi di New York, città di cui mio padre, con giusta ragione, era matto. Da dove comincio per cianciare di quest’oggetto, ormai, forse, di nuovo sconosciuto?
Dalla faccia dello stregatto di Alice, l’unico gatto che mi ha sempre fatto terrore. Un occhio chiuso ed uno aperto, per non vedere doppio, ed eccolo lì, col suo spaventoso faccione sospeso nella notte, senza corpo e col suo sorriso fluorescente di sarcasmo… tu che guardi ce l’hai tra gli occhi e il naso e aspetti solo che apra le fauci e faccia di te un solo boccone. Era questo il bello, eri dentro la storia! E allora, portavi l’arnese agli occhi per qualche secondo, testando il tempo in cui riuscivi a sopportare l’adrenalina che ti entrava in circolo, e poi giù, via, di nuovo nella realtà, coi piedi per terra, per prendere fiato e poi riprovare, senza mai trovare pace, né di qua, né di là.
Così come in quella che ritraeva arzilli visitatori sulla cima dell’Empire State Building, signore incappellate di piume e velette che tengono la mano sulla testa per non far volar via il rassicurante accessorio mentre guardano giù, e tu sei dietro di loro, come volassi a cavallo di un drone e la vertigine del vuoto ti attrae “come una nave che anela al mare eppur lo teme”. Oppure, Alice grande grande nella casa piccola piccola e Bianconiglio che l’aspetta fuori: le enormi braccia infilavano due finestre aperte sui lati opposti della casa, mentre la testa, guarnita da lisci capelli biondi e da un nastro di raso nero messo a trattenerli, assennatamente, dietro le orecchie, ne sollevava il tetto.
Mi sembrava una magnifica assurdità che, di nuovo, mi ammaliava e spaventava al tempo stesso, mi sarebbe piaciuto essere lì dentro. Entrare dentro le cose a 3D era una mia fissa di bambina. Le cartoline olografiche, per esempio, provavo sempre a smontarle per tirane fuori gli oggetti, gli animali, le persone o i pupazzi che vi erano ritratte. Ancora ne circola qualcuna in casa con tutti i bordi tagliuzzati e pezzi di pellicola superficiale strappata nel tentativo di capire come fosse possibile che, una cosa piatta, a due dimensioni, fosse capace di contenere una realtà a tutto tondo, con una profondità che avevo una voglia matta di esplorare. Quelle che mi deliziavano di più erano quelle che mi facevano entrare in un mondo fantastico, la realtà così com’è, chesta è ‘a zita e si chiamma ‘Sabella, non mi è mai piaciuta.
Ma la domanda è: questa storia c’è o non c’è? Prendo tempo, consumo righi in questa riflessione, allungo il brodo macinando caratteri, forse perché la storia non c’è. Detesto gli esercizi virtuosi, magari le parole sono pure messe bene, ma da dire non c’è niente… per carità! Che si dica se si ha da dire, altrimenti si taccia, che il rumore di sottofondo all’insegna della vacuità è già assordante. Io, che mi sono sempre stata a casa, posso continuare a farlo.
La tridimensionalità capace di suggerire altri mondi possibili doveva essere un pallino nella mia testa, perché la percepivo anche in ciò che si presentava, inequivocabilmente, a due dimensioni. Le copertine del Topolino avevano, per me, sempre tre dimensioni, forse grazie alla lucida patinatura presente, di solito, nelle edizioni speciali. Le più attraenti erano quelle dedicate a Minni (in seguito, il mio femminile alquanto minnesco sarebbe stato oggetto di ammirazione quanto di critica, forse perché non sarei stata capace di chiarire che, un po’, mi sento davvero un fumetto che avrebbe vissuto volentieri a Paperopoli o a Topolinia, e forse ho amato davvero solo chi ha capito che più che un’umana sono una topesia).
In particolare, ce n’era una con Minni accomodata in poltrona di fianco ad una classica lampada anni ’50, con un plaiddino scozzese sulle gambe immersa nella lettura di un buon libro e, sulla parete alle sue spalle, un quadretto ritraente un’improbabile antenata, la bis-bis-bis- prozia Topilla De Topolis, di cui certamente io sono la reincarnazione in salsa umana.
Il suo occhione a mezz’asta e il sorriso appena accennato mi suggerivano quanto stesse assaporando il momento, nel tepore della sua casetta, nella calma di chi può usare la corrente elettrica senza pagare le bollette (sarebbe stata forse l’Unione Sovietica la mia patria ideale?), di chi può essere elegante senza dover essere trendy, bon ton senza diventare conformista, di chi può avere un fidanzato, con cui non si lascerà mai,
senza suocera annessa e senza mamma che per forza te lo vuole far sposare, di chi può stare in serena solitudine senza il tormento di quello che dovrebbe fare, che avrebbe potuto fare, che ha sbagliato e doveva/poteva fare meglio, senza contare che non avrà mai più di un’influenza né le toccherà per forza di morire (almeno, così dicono, che si muoia, ne sarò certa quando succederà)… uff… me lo sentivo già tutto quello che mi sarebbe toccato, per questo volevo sparire dentro la copertina del Topolino!
Ma chi lo dice che il mio piano fosse sbagliato? Ora potrebbe partire il pippotto psicologico che, beninteso, avrebbe pienamente ragione: volevo fuggire da un’infanzia che, per mille motivi, mi stava stretta. Menomale, va’, perché, altrimenti, se mi fosse stata larga, non avrei mai avuto la necessità di mettere il naso fuori da lì.
Premesso che non mi piacciono i sogni e detesto tutta quella melensa sub-cultura della speranza da santino facebookiano, avendo fatto mio, sin da subito, il detto: “Chi di speranza vive, disperato muore”, direi che mi piacciono le realtà da sogno, mi gusta e mi attizza l’idea che la realtà sia bella come il più bello dei sogni. Ne ho realizzati di sogni, di quelli che si fanno di notte, come baciare un uomo che desideri al punto da diventare psicotica, un attimo dopo che ti abbia detto: «Ti amo» e la realtà è stata come il sogno. E allora? La realtà può essere il più incredibile dei sogni. Forse ci siamo inventati l’espediente del sogno e della speranza per non affrontare la sublime gioia di fondare una realtà da sogno.
Ad un certo punto della Storia, anzi, a dire il vero, nel momento esatto in cui ci siamo entrati ufficialmente, provenendo da luoghi in cui il tempo era solito curvare fino a creare un cerchio, ci siamo ostinati a volerlo spezzare, quel cerchio, e lo abbiamo stirato in una linea, pronti ad inventare la più gagliarda delle parole: progresso.
Ma ci era sfuggito che progresso vuol dire che il meglio deve ancora venire, e che non sta qui, ma lì, nel passo che stiamo per dare, che, una volta dato, quello giusto è quello successivo, e poi nell’aldilà, nel domani che verrà, nel sogno che si avvererà, e, per quanto sia confortante pensare che ciò che speravamo di veder realizzato, di certo, a suo tempo, dovrà accadere, viene da chiedersi: ma quando? Mia madre mi chiamava Frettella, tutto ‘sto rinvio non è mai stato per me. La vita io la voglio mangiare come una brioche col gelato di Ciro a Mergellina stracolma di panna, ma, attenzione, non la voglio “consumare”, la voglio gustare, ed è cosa ben diversa.
Forse è nata lì la confusione, ai tempi del boom economico e poi a quelli dell’edonismo reaganiano, dopo millenari rinvii, abbiamo deciso di fare man bassa di tutto: risorse, anime, cervelli, destini, relazioni, droghe, alcol, tecnologia, tecnocrazia, sesso, amore, messe con chitarre pop, mantra indiani al ritmo di swing, immagini, suoni, luci, colori, scoperte che cambiano la faccia della terra, case, palazzi, ville al mare e in montagna, automobili, bombe A, H, N, G, hamburger sottocosto, vite sottovuoto, per non parlare delle stagioni, vanno di fretta pure loro e si presentano ogni quattro ore anziché ogni quattro mesi. Forse ci siamo ‘mbrugliati, doveva essere “qui ed ora” e invece è diventato “tutto e subito”, che si somigliano, ma non sono la stessa cosa.
Eppure, saltare dall’uno altro non è troppo difficile, perché naturalmente si seguono l’un l’altro, basta rifare della linea un cerchio e ritrovare quel tempo che procede verso l’Uno, perché il cerchio si può tenere aperto, quello che conta è conservare la curva e proseguire in un moto a spirale che ci conduca verso un magico puntino, nel quale…. ahhhhhhh, che sollievo….. potremo dissolverci.
Sarebbe bello metterci tutti in fila a cavalcioni del cerchio, e gira, gira, e noi con lui, come su un grande hula hoop a righe bianche e rosse a ballare il twist della vita con anca lesta, e mentre sei giù, sai già che poi va su, e quando sei su, ti prepari al vuoto di stomaco della calata, tanto, poi, lui gira e tu risali. Per fare esercizio, potremmo cominciare con la ruota panoramica di Edenlandia, perché le nostre menti hanno ora bisogno di riadattarsi a concepire di andare in tondo, piuttosto che di avanzare.
Nell’idea di eterna espansione che Capitan Capitale ha scelto per noi c’è tanta bellezza, è lei che ci seduce e ci trascina nel suo sogno a bordo della Discordia, sogno che non diventerà mai realtà, perché il punto è che il sogno non è nostro e l’imbarcazione nemmeno, a meno che non si sia noi disposti a veleggiare anche su una zattera da cui non si scorga alcuna destinazione certa, e su cui non ci sia nessuno che ci voglia per forza dimostrare quanto fosse necessario e come siano andate “davvero” le cose quando Capitan Capitale si dimenava per salutare amici e parenti sotto costa per venire bene nelle foto da pubblicare su Fb, ed ora noi siamo il Capitano e la nostra realtà da sogno è il mare fresco nel quale, finalmente liberi, possiamo immergere la mano.
E allora avevo ragione io da bambina a voler entrare in altri, tutti, i mondi possibili, e dispiegare spazi e tempi in tutte le dimensioni. A cavallo di un drone infilarmi nella favola di Alice a bere il thè con Bianconiglio o tra i gendarmi della regina a dipingere di rosso le rose bianche, aspettando la buia notte per dire allo Stregatto, muso a muso che, in fondo, poi, mi è simpatico; ritrovarmi grande grande che sfondo il lastrico solare del mio palazzo di periferia (degradata, ovviamente)con la mia eruzione di ricci per niente assennata, e, poi piccola piccola a prendere confidenza con le bottiglie in pvc lanciate dai balconi, che, se ti c’infili dentro, puoi viaggiare con loro verso il mare e finire nel ventre della balena come Pinocchio;
da lì, sulla terrazza dell’Empire a sciupare il plumage dei cappellini delle vecchie signore per invitarle a venire con me a montare l’hula hoop del giusto tempo ritrovato; e ancora, di corsa, a sollevare gli strati della cartolina olografica come fossero una copertina, per incontrare Mastro Geppetto, che ha i capelli arancioni fatti di fili di lana e aspetta che il suo figlio di legno diventi un uomo vero e posso fargli compagnia. A sera, stanca, approfittare del fatto che Minni sia uscita con Topolino per una romantica kermesse, non se ne avrà se, per un po’, me ne sto sulla sua poltrona fatta di gelatina di mela a leggere, finalmente, “I fratelli Karamazov”.
Vorrei vivere, in una sola, almeno venti vite, compresa quella in cui il colesterolo non esiste e posso mangiare ciurilli fritti e zucchine a pampugliella senza che il medico mi debba rammentare che, oltre una certa età, il metabolismo rallenta. Dunque, lo mando questo non-racconto per giocare al non-scrittore, come farebbe Bianconiglio, me la sfilo questa maglietta marcata Benetton e ne faccio una vela per la mia zattera, mentre la Discordia affonda senza che io nemmeno mi volti a guardarla. Chiunque voglia salire a bordo è il benvenuto, basta che si sia pronti a prendere il vento quando soffia in poppa ed in cuore si abbia la certezza che, ora o mai più, la Vita è un’occasione che non possiamo perdere.
Foto di Marco Maraviglia per Cinque Colonne Magazine