Quest’anno cade il 25° anniversario dalla morte di Patrizia Vicinelli (Bologna, 1943-1991), e mi piace qui tentare un profilo, con l’aiuto dei versi di un suo poema epico, Non sempre ricordano (Aelia Laelia, 3a stes., 1985). Poeta inquieta e vivace, di raffinato linguaggio dirompente, franto, d’avanguardia (aveva fatto parte del “Gruppo 63”, la neoavanguardia letteraria italiana, dal Convegno di La Spezia del 1966), tra euforia e disperazione che procede decostruendo i codici tradizionali della poesia italiana che a suo tempo (tra gli anni ’60-80’) era ancora legata all’embrione montaliano intimista e crepuscolare. Ma anche poeta alla quale non sono del tutto invise le radici tradizionali, ma equidistante da tutto, come un attore che si muove sulla scena recitando a braccio, senza copione e senza suggerimenti, per un azzardabile pastiche linguistico tutto particolare: «La figlia irrequieta della letteratura italiana del secondo Novecento (in preda a un “controllatissimo delirio verbale”, come dice N. Lorenzini […] va ostinatamente in una direzione divergente rispetto alla strada indicata dalle pietre miliari dello sperimentalismo; e infatti la Lorenzini parla di “testi spiazzanti non rubricabili” (e tali appaiono ancora oggi): “interferenze stridenti”, “shock linguistici, visivi e acustici”» (M. Buonofiglio, Linguaggio “ancestrale” e sperimentazione linguistica nell’opera di Patrizia Vicinelli, in «Il Segnale», anno XXXII, n. 95, giugno 2013).
La contrapposizione avviene anche nei confronti della “linea lombarda” di una poesia monopolizzata dall’io narciso, della “parola innamorata” (titolo di un’antologia del 1978, pubblicata presso Feltrinelli, a cura di G. Pontiggia ed E. Di Mauro) che pretendeva di contrastare la neoavanguardia con un recupero, ormai fuori luogo, di linguaggio soggettivo lirico, orfico, mitologico, sacrale, pacifica, un automanierismo di una poesia innamorata di se stessa: «… Volevano andare tutti là, lontano / dalle chiazze sui materassi fetidi / di sudore e sangue, questo giudizio che / ci diamo conformi all’apocalisse, / basta disse centrato un punto del silenzio / la perfetta assenza gettando un urlo / che fu udito fino al cielo, / come una meditazione riuscita. / Oh, lord, want you buy me a color tv… / chant d’amour / genet lo sa / voglio cadere dentro il sole / che non resti traccia / le motivazioni profonde, sì, / d’amore» (in Non sempre ricordano, op. cit., p. 88).
In altre occasioni, Vicinelli ci presenta una poesia che frantuma letteralmente il verso come se volesse farlo impazzire (ciò anche nelle poesie fonetico-sonore), ricreando sul foglio un’asimmetria illogica e antisemantica (questo avviene soprattutto nell’età matura, negli anni ’80), procedendo a «perdifiato, a perdizione, a scommessa, a capitombolo, a pura fuga, nelle passioni sfrenate che si svolgono alla fine del decennio» (F. Leonetti, pref. a P. Vicinelli, Non sempre ricordano, op. cit., 1985, p. 6), che si trasforma sul foglio come segno grafico, visivo, con una scrittura deformata, e in qualche caso semplicemente sonora.
Linguaggio tagliente, fisico, materico, questo della Vicinelli, e di rottura, di un verso lungo, abbastanza metrico, apparentemente narrativo, ma di un io poetico non tradizionale: «… ogni cosa provoca infonde e fa scoppiare di colpo / una passione e fuoco di cellula in cellula che / non la estirpi – ma non ci provare ? / perché ti ritorna senza più contorni come / centauro, padrone dei passati ora inutili» (P. Vicinelli, in Non sempre ricordano, op. cit., pp. 51-52).
Donna irrequieta, di una bellezza disarmante, ammaliante (chi la incontrava si innamorava subito), ma di una delicata tristezza interiore che spesso mascherava con l’ironia, un male di vivere per cui si rifugiò nella droga fino a trovarvi la morte per overdose.
Abbiamo detto che come poeta era depositaria di un linguaggio franto, dissacrante, controcorrente e contro tutto, ma in contrapposizione all’aria “pacifica e anestetizzata” che respirava la poesia dopo la fase della neoavanguardia. Spesso nelle sue poesie si fa ricorso al segno, al plurilinguismo, o interamente alla lingua francese (come il suo maestro e mentore Emilio Villa) o in inglese, a lacerti dialettali, alla spezzettatura delle parole, un moto combinatorio che allontana dalla fissazione del frammento di ungarettiana memoria, che pure adopera nei suoi testi «Fra le liturgie di Domodossola / passiamo / le frontiere / e certe volte, / caro trecento, / ci beccano / su e giù / dune / fra bandiere eterogenee» ( in Non sempre ricordano, op. cit., p. 75).
Sofferente nella vita («aver paura di vivere molto più di morire», cita un suo verso), una vita vissuta sempre sul precipizio («Non c’è stendardo che possa realmente fermarmi, né chiusura di spazio, né circolo di tempo: la mia vita e la mia morte sono la stessa avventura»),sofferente quando si trova di fronte al foglio bianco che inizia a bombardarlo come un campo nemico (è proprio il caso di dire) con versi raffinati sì ma pieni di contraddizioni, scrostamenti di una sedentarietà scritturale che non le appartiene, e che rasente il ridicolo o l’autobiografia, due aspetti della poesia rifiutati senza appello. I suoi testi, che definiamo semplicemente verbovisuali, forse faremo un torto alla molteplicità e incontrollabile scrittura vicinelliana. Ma per convenzione li chiamiamo verbovisuali, in quanto attaccano tutti gli spazi del foglio, tracciando segni segmentati e zigzaganti, elicoidali, ellittici, che fanno di queste poesie un’immagine visiva.