Il 6 febbraio se ne è andato, dopo Ugo Carrega, Eugenio Miccini e Stelio M. Martini, anche Sarenco, un altro poeta verbovisuale dei cinque maestri che presero parte alla mostra “Poesia visiva: 1963-1988”. Ora ci resta l’unico superstite: il novantenne Lamberto Pignotti.
Sarenco (all’anagrafe Isaia Mabellini) nasce a Vobarno (BS) nel 1945. Nel 1963, mentre in Italia nasce il “Gruppo 63” della neoavanguardia letteraria, inizia ad avvicinarsi alle ricerche poetico-visuali, stringendo i primi contatti con gli artisti del “Gruppo 70” (nel gruppo entrerà ufficialmente l’anno successivo) che si contrapponevano alla poesia lineare e politica del Gruppo 63, proponendo la poesia verbovisuale, cioè la parola, il verbo che diventano anche immagine o interagiscono, omogeneizzandosi con essa fino a divenire un’opera visuale, o meglio, verbovisuale. Sarenco darà al Gruppo 70, formato da Miccini, Pignotti, Chiari, Perfetti ed altri, un contributo di forte impatto dirompente che si contraddistingue per il tono graffiante e caustico, come è il suo carattere, delle sue poesie associate ad immagini provenienti dal mondo della pubblicità, dei mass-media o dell’arte. Come i suoi sodali, si serve del collage, dell’assemblaggio, con una differenza sostanziale: usa le sue opere come strumento di lotta politica e culturale.
Fin dai primi anni dell’entrata nel mondo artistico, svolge un’intensa attività editoriale e organizzativa, fondando riviste nell’ambito dell’esoeditoria, quali «Il Tarlo Valsabbino» (1963, la prima), «Amodulo» (1968); «Lotta poetica» (1971, quest’ultima dirigendola con il poeta belga Paul De Vree); «Factotum» (1977); e «Radio Taxi» (1982), una rivista-collana di dischi dedicata alla sperimentazione della poesia sonora italiana. Il mezzo più adatto per avvalorare le sue idee, Sarenco, lo aveva individuato nel ruolo della rivista che, secondo la sua concezione, lo strumento per una forza rivoluzionaria militante e guerrigliera, che è la stessa concezione che Sarenco ha dell’arte. La rivista più importante che ha fondato, è «Lotta Poetica», una denominazione che è tutto un programma. Alla rivista collaborano artisti di grosso calibro quali Giuseppe Desiato, Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini, Mirella Bentivoglio, Julien Blaine, Arrigo Lora Totino, Paul De Vree, Ugo Carrega, ecc. La linea poetica da adottare è la stessa linea di Sarenco: «Io penso che bisogna riconsiderare l’importanza della ricerca d’avanguardia e “futuristica” degli anni 10/30, soprattutto in questo momento in cui trionfano gli imitatori, i copisti e quelli che si rivolgono – come sempre – nostalgicamente al passato. Bisogna opporsi decisamente al tentativo di liquidare gente come Marinetti, Duchamp o Man Ray.
Su «Lotta Poetica» vengono dibattuti i temi più caldi della poesia verbovisuale del momento e ospitati artisti internazionali. D’altronde la rivista ha un respiro internazionale e una sensibilità artistica che, come si dice oggi, la tiene costantemente “sul pezzo”, sulla situazione e gli sviluppi della poesia. Fonda anche case editrici, per esempio le Edizioni Amodulo (1969); SAR.MIC (1972, con Eugenio Miccini); e Factotum Art (1977).
Ma riviste e case editrici non bastano a riempire il quantitativo di idee che spende a favore dell’arte. Questa esplosione di creatività lo porta, nella sua Brescia, dove va a vivere e dove ha vissuto fino alla sua morte, ad aprire spazi espositivi come la “Galleria Sincron” (1967); la galleria-libreria “La Comune di Brescia”, (1968, con Enrico Pedrotti); la “Galleria Amodulo” (1970); e lo “Studio Brescia” (1972), ospitando e organizzando numerose mostre di poeti verbovisuali italiani e stranieri. Nel frattempo si dedica anche alla cura di importanti mostre di ricerca poetico-visuali e concrete, due di grande rilievo internazionale: nel 1988, a Verona, “Poesia visiva: 1963-1988. 5 maestri: Ugo Carrega, Stelio Maria Martini, Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti, Sarenco”; a Mantova, nel 1998, “Poesia totale. 1897-1997. Dal Colpo di Dadi alla Poesia Visuale”. Non mancano nella sua vita di artista inquieto e focoso, lunghi viaggi lungo la via dell’arte, come quello in Africa nel 1982 dove, in sintonia con il continente nero, decide di andarci a vivere, trasferendosi per un lungo periodo in Kenya, a Malindi, dove promuove l’arte africana integrandola con quella occidentale, e nel 2006 fondando la prima Biennale Internazionale d’Arte di Malindi. Era così Sarenco, eclettico e vulcanico, un’esplosione di idee che lo conducevano ad interessarsi anche di sperimentazione filmico-sonora, producendo lungometraggi dalla struttura asemantica: il primo, Collage, nel 1984 che gli valse nel 1985 l’invito al XLII Festival del cinema di Venezia. Per Sarenco un’idea o un desiderio dovevano realizzarsi subito in realtà per poterla poi modificare.
E sì, la realtà per Sarenco è una pagina bianca da scrivere e colorare adoperando qualsiasi mezzo, in piena libertà. Negli anni successivi produrrà altri film: In attesa della terza guerra mondiale (1985); Benvenuto grande cinema (1987); Pagana (1988); Safari (1990); Performance (1993). Così lo ricorda Patrizio Peterlini, direttore della Fondazione Bonotto: «È difficile parlare di Sarenco senza accennare alle sue poliedriche attività culturali. Sarenco è un agitatore, un provocatore culturale, un vulcano in piena attività. Sin dall’inizio la sua attività poetica è caratterizzata da una forte, e per certi versi incontenibile, spinta organizzativa che ha trovato sfogo nella fondazione e direzione di riviste, gallerie, collane editoriali, festival, esposizioni internazionali, centri culturali, biennali.
Tutte queste attività sono parte integrante della sua produzione poetica, sono un tutt’uno con essa. Da questo punto di vista, le sue riviste, le sue gallerie, i suoi festival sono da considerarsi delle vere e proprie opere. Come i film, i video, le performance. Sarenco è riuscito, nel corso della sua pluriennale attività, a rendere la propria vita un’opera». C’è una definizione emblematica che Sarenco fa di se stesso che ci fa capire la grandezza di questo poeta verbovisuale, il quale ci teneva a sottolineare che un poeta, chiunque esso sia, viene sempre dopo un altro poeta, che prende un po’ dai suoi predecessori per supportare le proprie idee, che pur non essendo nuove agitano parole e sentimenti per una spinta in avanti. E in questa “lotta poetica” (per lui la poesia era una lotta continua contro l’ignoranza della società) siamo tutti e nessuno: «Ho copiato dai situazionisti che hanno copiato dalle avanguardie storiche (futurismo, dadaismo, surrealismo) che hanno copiato da Mallarmé che ha copiato da Rimbaud che ha copiato da Rabelais che ha copiato dagli alessandrini che hanno copiato da Dio. Sono poeta sono figlio di Dio» (Carlo Rim. Il giornale di un dilettante, intervista a cura di Julien Blain e Sarenco, in «Lotta Poetica», n. 2, serie III, novembre 1987, p. 154).
Vista la vacuità del presente, la quasi inesistente volontà di creatività ad appannaggio di una società spettacolarizzata e ipnotica, visto che il futuro ci è impedito ostacolato da una precarietà totale del fare, non ci resta che rivisitare il passato, ma non nostalgicamente o come sicuro rifugio, bensì come alimento di segni e segnali inesplorati nel tentativo di dare linfa alle nostre giornate assonnate.