Flaminia Bolzan è autrice del libro “Turchese”. Un romanzo introspettivo, una ricerca accurata, sensibile, ma reale, della complessità dell’animo umano. Turchese è il nome della protagonista, figura di grande contrasto, a partire dalle tinte tenui del suo nome a quelle forti e ribelli della sua anima.
Flaminia Bolzan, psicologa e criminologa laureata all’Università dell’Aquila in Scienze dell’Investigazione è una stimata professionista nel settore. Si è occupata per il suo Dottorato di Ricerca all’Università di Roma “Foro Italico” di sport e carcere analizzando la rappresentazione sociale che si ha dell’attività motoria in ambito detentivo.
Ha collaborato con l’Università Luiss presso la Cattedra di diritto Penale della Prof. ssa Minerva. Attualmente coordina il Progetto “Sportello Ascolto” presso l’Istituto Comprensivo via Boccioni di Roma. E’ Professore a contratto di Psicologia Sociale e Sport presso l’Università Niccoló Cusano.
La sua competenza e professionalità l’hanno fatta conoscere anche al grande pubblico mediatico, in quanto si è occupata di alcuni dei più noti casi di cronaca nera italiana.
Flaminia come nasce l’idea di dar vita al complesso personaggio di Turchese?
Non è stata una scelta vera e propria, Turchese è la rappresentazione di una distonia tra “dentro e fuori”. È nata quasi autonomamente nel momento in cui ho provato a raccontare la cosa che maggiormente mi appassiona: la vita delle persone. I loro turbamenti interiori, le dinamiche che sottendono le azioni e tutto ció che allontana e avvicina agli altri e a un’interpretazione equilibrata della realtà. Turchese è una creatura che racchiude gli alti e i bassi della vita, un personaggio che avrei desiderato spingesse il lettore ad andare “oltre l’apparenza”.
Quanto c’è di Turchese, nei giovani della società attuale?
Tutto e niente. In Turchese ci sono gli eccessi e questi spesso fanno parte dell’età giovanile. C’è però una apparente mancanza di entusiasmo e di motivazione che invece, fortunatamente, tanti ragazzi sono in grado di manifestare all’esterno, nelle loro passioni. Turchese poi ha un tratto che purtroppo manca a mio avviso nella quotidianità di tanti giovani: è attratta dagli “ultimi” ed è in grado di trasformare il disprezzo in fiducia. Nella sua evoluzione diventa attenta all’intimità altrui e proprio grazie a un barbone, impara a contattare le sue emozioni, i suoi stati d’animo più turbolenti.
Sei una professionista affermata e molto impegnata, quando nasce la volontà di scrivere un libro e come si può conciliare con le complessità della tua professione?
Il desiderio di scrivere un romanzo nasce probabilmente nel momento in cui ho maturato la consapevolezza, che il mio “canale espressivo” prediletto era quello che prevedeva l’utilizzo della carta e della penna. Mi piace scegliere con estrema cura le parole. Trovare per ognuna una gamma ampia di sinonimi e nel parlato, che è molto più “veloce”, questo non sempre mi riesce. Quando il desiderio si sia tramutato in volontà vera e propria onestamente non saprei dirtelo, non c’è stato un momento preciso. Turchese è nata attraverso lo sviluppo di una serie di piccoli racconti (che avrebbero poi contribuito a generare il puzzle finale). Senza Domenico, Diego e Alberto, (i miei editori) sarebbe rimasta un sogno a tinte tenui nascosto nel cassetto della fantasia.
Loro mi hanno dato una “spinta”, nel momento in cui leggendo una bozza di questi racconti (mal) messi insieme mi hanno proposto di pubblicare il romanzo vero proprio. Trovare il tempo è stata una conseguenza della “necessità” che avevo di raccontare la storia di Turchese dalla A alla Z. Di regalare a lei e a Gabriele una vita dai contorni più o meno definiti. La notte era per me il momento perfetto. Perchè in fondo entrambi i protagonisti di questo romanzo sono parte di un’oscurità, che ben si coniuga con il silenzio delle ore più tarde
Come si è sviluppata la tua passione per la criminologia?
È nata quando ero piccolina. Volevo capire “perchè le persone cattive fossero cattive”. Come dico sempre, in maniera ironica, si è sviluppata quando ho capito che non potendo essere una criminale, dovevo scegliere un’alternativa valida e congeniale. Scherzi a parte, lo sviluppo dell’interesse in questo campo è dipeso dal fatto che maturavo a mano mano la consapevolezza di non voler giudicare il male. Parallelamente all’esigenza di comprendere peró quelle che erano le sue radici.
Come riesci a scindere l’impegno professionale da quello emotivo, nel tuo lavoro da criminologa?
Faccio sempre l’esempio del chirurgo. Quando un medico si trova di fronte ad un’operazione complessa, in cui il paziente è a rischio, non può lasciarsi prendere dall’emotività o rischierebbe di “non fare” ció che invece è necessario.
Nel mio caso l’emotività, che potrebbe avere a che fare con il pensiero negativo o con la rabbia relativamente al dolore, che le azioni di un individuo possono aver cagionato, porterebbe ad un pre-giudizio e questo mi impedirebbe di osservare lucidamente l’alterità e i fatti.
Io sono una persona che vive intensamente le emozioni, ma attraverso l’analisi e soprattutto nel mio lavoro, ho imparato a riconoscerle e gestirle. A volte ci danno indicazioni importanti, hanno una loro funzione.
Per ogni autore il proprio libro è una propria creatura, che ha visto nascere e completarsi fino alla lettura del grande pubblico, cosa rappresenta per te “Turchese”?
Turchese rappresenta tutto ció che amo. C’è Roma, c’è la fragilità, c’è la profondità delle relazioni, c’è la possibilità di una risoluzione e una sorta di nebulosa indefinizione. Ci sono tante vite e tanti risvolti nascosti nei simboli. Turchese credo rappresenti le fantasie dietro il mio mondo e lo fa da vera protagonista: nella maniera più cruda e reale possibile.