“Mettiamo che nevica adesso, il senso dov’è?”. L’attesa, la speranza, la disillusione emergono all’intero di Tre Sorelle del celebre drammaturgo russo Cechov riproposto dal regista Claudio Di Palma al Teatro Mercadante di Napoli. Sono donne moderne quelle di Cechov, donne condannate alla continua sproporzione e delusione tra l’anelito di un desiderio e l’inevitabile disattesa del futuro. Nei loro volti si anima una lealtà espressiva senza precedenti e quantomai attuale fatta di crisi e profonda solitudine. Sono donne che impattano in una realtà che le stradica dalle loro origini nel segno di una perdita che è soprattutto identitaria e che le condurrà ad un inevitabile tradimento dell’attendibilità dei fatti sfiorando a tratti il comico, il bizzarro, sino a perdere i confini tra ciò che si attende e ciò che si verifica, tra la realtà e il suo contrario. Così che ridere o piangere in fondo è la stessa cosa ed è per loro solo una questione di attimi perché il barone Tuzenbach ha appena argomentato sull’inappellabilità di un destino immutabile concedente all’uomo solo intervalli di transitoria e strumentale felicità.
Ol’ga, Mascha e Irina , interpretate egregiamente da Sara Scuccimarra , Gaia Aprea e Federica Sandrini, incarnano l’ineluttabilità del cambiamento che si esprime all’interno di uno scarto tra tempo atteso, pieno di speranza e aspirazioni che nei fatti viaggia sulla strada che “conduce” alla città invisibile di Mosca, un anelito vitale che non avrà reale compimento perché la nave colma di speranze non salperà sin quando “Le Sorelle” orfane non saranno in grado di fare i conti con la propria realtà intrisa di passato e di scelte infelici. L’essere circondati da un’abbondante ipocrisia, che regola e manipola ogni cosa e alla quale si cerca costantemente di sfuggire conduce ad una condizione di vita indefinita e affannosa, ogni cosa perde la sua concretezza e si volatilizza in quanto gli oggetti e i luoghi vengono privati della loro appartenenza, del loro senso più profondo. Ed è proprio l’entrata in scena della figura di Natasha a mettere in discussione quel presente privo di colore, opaco, stilizzato. L’antagonista con il suo vessillo verde e volgare e con una piccola fiammella desidera bruciare il passato o forse semplicemente riuscire ad illuminarlo sotto gli occhi indiscreti delle “Tre Sorelle”, unite proprio dalla terribile vicenda familiare ma anche dalla speranza per un futuro migliore, un legame indissolubile che proprio nella disperazione e nei momenti più tragici riesce a tenerle unite.
Di Palma, insieme allo sceneggiatore Luigi Ferrigno, ha privilegiato nella costruzione della scena, una spiaggia, unico luogo da cui è possibile assistere al miracolo paradossale dell’orizzonte. L’orizzonte è il traguardo fittizio dell’anima, e si configura come l’unica probabile geografia dove è possibile edificare Mosca attraverso una linea marcata e precisa, eppure inesistente, che è lì, tracciatura geometrica netta tra cielo e mare, eppure irraggiungibile. I costumi disegnati da Zaira de Vincentiis dovevano essere aderenti all’essenza dei personaggi, sordi e piatti per meglio delineare la forma e allo stesso tempo imprimere un forte valore espressivo e drammaturgico al colore. L’assunzione di uno stile che non portasse con sé un vissuto, ma un senso di anonimità, che rispecchiasse in qualche modo anche l’impostazione ambientale, stilizzata ma intensa. Cosa c’è allora di più tragicamente comico di questa condizione? I corpi vanno e vengono, sospesi e intrisi di rabbia e lacrime, di sorrisi colmi di disperazione, di abbracci ricercati, di amori mai nati ,di tradimenti atti a giustificare i comportami dell’altro. Personaggi fermi ad interrogarsi sul senso della loro esistenza, della loro presenza che paradossalmente altro non è che distanza e chiusura da quel mondo interiore continuamente in rivolta contro se stessi. E allora: “ il senso dove sta?”.