“Simone Forti. To Play the Flute” è il primo appuntamento di Furla Series #01 – Time after Time, Space after Space, un programma dedicato alla performance che, attraverso cinque focus su altrettanti artisti di generazioni e provenienze differenti, presenterà una pluralità di approcci a questa forma espressiva.
Simone Forti è da oltre cinquant’anni una delle figure di riferimento della danza postmoderna. Dai movimenti minimali e prosaici dei suoi primi lavori, alle improvvisazioni che coniugano parola e movimento, la sua ricerca ha profondamente influenzato la danza e le pratiche performative contemporanee.
To Play the Flute consiste nel reenactment di quattro performance storiche che rappresentano tappe fondamentali nel percorso artistico di Simone Forti: da Huddle e Censor (entrambe del 1961) fino a Cloths (1967) e Sleepwalkers (1968), la selezione restituisce alcuni degli elementi chiave che contraddistinguono il suo approccio alla performance, come la combinazione di azioni e oggetti e il ruolo fondamentale del suono.
È in particolare con le celebri “Dance Constructions” – oggi parte della collezione permanente del Museum of Modern Art di New York – che Simone Forti si afferma sulla scena artistica degli anni Sessanta come innovatrice e sperimentatrice del linguaggio del corpo. Presentate per la prima volta nel 1961 come parte delle Five Dance Constructions and Some Other Things durante una serie di eventi organizzati da La Monte Young nello studio di Yoko Ono a New York, queste performance ripensano la relazione tra corpo e oggetto, movimento e scultura, rispetto delle regole e improvvisazione. Si tratta di azioni costituite da movimenti semplici o dall’interazione con oggetti, in cui l’espressione personale e l’improvvisazione vengono sempre precluse dagli sforzi richiesti per svolgere determinati movimenti o seguire delle regole.
Lavoro tra i più noti di questa serie, “Huddle” consiste nel gesto collettivo di un gruppo di persone che, strette le une alle altre, creano una sola entità strutturale. Un insieme disuniforme di braccia, gambe, busti e teste prende forma sotto gli occhi degli spettatori, diventando una scultura fatta di corpi che ad uno ad uno scalano questa massa per poi rientrare a farne parte.
Presentato nel 1961 all’interno dello stesso contesto, “Censor” è invece uno scontro tra suoni: una pentola piena di chiodi viene scossa vigorosamente mentre una canzone è intonata ad alta voce, un’estenuante competizione acustica che all’interno di To Play the Flute viene ripetuta più volte fungendo da intermezzo tra una performance e l’altra.
In “Cloths“, realizzata per la prima volta nel 1967 alla School of Visual Arts di New York, tre tele nere occupano lo spazio celando altrettanti performer che rovesciano su di esse una serie di drappi a formare una stratificazione di superfici colorate, mentre cantano sovrapponendo le loro voci a brani preregistrati di altre canzoni. Il corpo scompare per lasciare completamente la scena a due elementi fondamentali nella ricerca dell’artista: il movimento – in questo caso quello dei tessuti – e la musica.
Infine “Sleepwalkers”, a Milano interpretato dalla performer e danzatrice Claire Filmon, è uno dei lavori più noti di Simone Forti ed è legato alla sua esperienza in Italia negli anni Sessanta. La performance fu infatti eseguita per la prima volta alla Galleria L’Attico di Roma nel 1968, dopo che l’artista trascorse giorni a osservare e disegnare la fauna dello zoo della città. Il risultato è un lavoro meditativo, basato sui comportamenti abituali che gli animali sviluppano in risposta all’ambiente confinato in cui si trovano, restituiti nell’azione performativa tramite movimenti minimi che indagano il complicato equilibrio tra restrizione e libertà.