Novembre è stato il mese di nuovi scossoni al vetriolo per l’Occidente, un regno non inespugnabile da tempo che sta subendo le conseguenze tragiche e manifeste di scelte secolari di sopraffazione economica su territori culturalmente distanti. Dal 2001 veniamo colpiti a sufficienza da non abituarci, quanto basta per rinnovati ed esclusivi sgomenti la cui eco di gravità e indignazione si propaga inarrestabile lungo il filo conduttore dei significati apocalittici mediatici. L’attentato terroristico di Parigi del 13 Novembre, quello all’hotel Radisson a Bamako in Mali, gli omicidi al campus universitario di Garissa in Kenya (tutti a distanza di pochi giorni) sono il proseguo di un intreccio amaro di avvenimenti della storia contemporanea di cui tutti i governi sono responsabili, si inseriscono in un quadro “narrativo” la cui trama segue una precisa logica, seppur complicata da concepire, e parzialmente oscurata dalla natura stessa della comunicazione e dalle dinamiche politiche che non coglieremo mai fino in fondo.
I linguaggi dell’arte intanto, continuano ad esorcizzare la realtà dei fatti attraverso opere che la testimonieranno nei secoli, nel tentativo di ricreare la bellezza e contribuire alla memoria storica che seppur molto lentamente, prima o poi assume un peso decisivo a sprezzo di tutti i corsi e i ricorsi.
Cinefago a Novembre sceglie di riportare alla memoria “digitale” un film del regista mauritano Abderrahmane Sissako: Timbuktu. La pellicola è stata candidata agli oscar come miglior film straniero nel 2014, la storia è ambientata in un passato molto prossimo: l’anno 2012, durante il quale con un colpo di stato il gruppo di liberazione dell’Alzawad, composto dalla minoranza Tuareg del paese, assumeva il controllo del Nord del Mali. Poco dopo però, altri gruppi islamisti come Ansar Dine (Difensori della fede) legati ad Al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQIM) si sono intromessi imponendosi nella regione dominandola attraverso la Sharia (legge di Dio) ovvero un sistema giuridico che ha tra le sue fonti principali il Corano, e che prevede, oltre alla pena di morte, punizioni corporali violentissime in caso di violazione di principi morali rigidi e anacronistici. E’ in questo contesto di sopraffazione che Sissako racconta la vita stravolta degli abitanti di Timbuktu in un montaggio alternato alle vicende del tuareg Kidane, un pastore che con la sua famiglia vive nell’illusione di non essere coinvolto dalle nuove imposizioni jihadiste nella città da cui rimane fuori, in una tenda nel deserto con moglie, figlia e bestiame. Intanto le donne di Timbuktu hanno l’obbligo di indossare velo e guanti, i ragazzini non possono giocare a calcio, i giovani non possono cantare,ballare e suonare musica. Tuttavia la contraddizione e l’infinita gamma di comportamenti umani sono il vero racconto del film, in cui gli Jihadisti lapidano, arrestano, uccidono, ma anche si confrontano con l’Imam della città attraverso il dialogo, si preoccupano delle medicine che mantengono in vita un ostaggio bianco, provano attrazioni segrete per donne sposate. Emblema del cortocircuito di senso di cui l’oppressione è veicolo, è la scena in cui alcuni ragazzini, bagnati dalla luce del tramonto sul Sahara, giocano in un campo senza pallone, indossando maglie di squadre di calcio europee.
Nel 2013 le forze armate francesi e i soldati dell’ECOWAS (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) hanno liberato il nord del Mali dagli Jihadisti, non stupisce allora che proprio Parigi sia stata teatro di nuovo orrore pochi giorni fa.