Con questo testo, Lucy Prebble, autrice anglosassone pluripremiata, si pone il dilemma esistenziale posto da Shakespeare in Amleto e da Oliver Sacks ne L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello: Cos’è che ci rende noi stessi?
The Effect è uno spettacolo a quattro personaggi che parla di amore, di depressione e dei limiti della neuroscienza; un testo impegnativo, divertente e straziante ambientato durante la sperimentazione clinica di un nuovo antidepressivo.
In un’elegante clinica dove si fanno esperimenti farmaceutici su volontari a pagamento, Connie e Tristan sono due cavie da laboratorio sotto la supervisione della dottoressa Lorna James la quale – a differenza del soave Toby, il direttore dell’esperimento e suo ex amante – non crede che la depressione sia uno squilibrio chimico del cervello e che possa essere curata con i farmaci. Forse Lorna pensa che le persone depresse abbiano solo una visione più profonda del mondo, di se stessi e della vita?
Con l’avanzare del racconto le due cavie umane assumono dosaggi farmaceutici sempre più elevati, ma sfuggendo al controllo dei medici si innamorano. Quello di cui non sono certi, però, è se questa loro passione sia frutto dell’istinto o sia invece frutto degli effetti della dopamina.
“Come posso capire la differenza tra chi sono e dall’effetto collaterale“, dichiara Tristan quando Connie si preoccupa che la loro passione potrebbe essere, unicamente, il risultato dell’assunzione dei farmaci. Ma, naturalmente, tutto l’amore è una droga; come possiamo fidarci veramente dei nostri sentimenti? The Effect è un dramma nodoso, che si occupa di oggettività scientifica, di senso di colpa, dei misteri del cuore e del cervello umano e di “ciò che ci rende quello che siamo”, celato in una forma ingannevolmente semplice e costantemente divertente. Un testo che sa miscelare un linguaggio carnale e temperato con la tenerezza e l’ironia.
La versione inglese ha debuttato al National Theatre, Cottesloe di Londra il 13 novembre 2012; lo stesso anno l’opera ha vinto il Critics‘ Circle Award come Best New Play.
La regia è tesa a far emergere le storie e i conflitti dei quattro protagonisti attraverso un gioco teatrale scevro da “effetti”. Vuole far affiorare l’elemento tragico in sé.
Un lavoro incentrato sugli attori, sulla capacità di raccontare e sulla relazione che si dovrebbe stabilire fra autore, attore e spettatore; un triangolo comunicativo che pone l’accento sul messaggio del testo e sulle immagini emotive che le parole del testo ricreano.
Un tipo di teatro che si potrebbe definire “teatro di parola“, un modo teatrale che non ha mai trovato una vera e propria collocazione di “genere”. Forse l’unica definizione la si può trovare nel Manifesto per un nuovo teatro di Pierpaolo Pasolini; una delle questioni evidenziate da Pasolini nel manifesto è, appunto, sulla precarietà del messaggio nel teatro “canonico”: “Pensiamo ad esempio di andare a vedere la prima di Otello, ciò che risulterà più evidente dello spettacolo sarà la recitazione degli attori, la visione del regista, la bellezza della scenografia, ma probabilmente il pubblico non rifletterà a pieno sul messaggio reale a cui si è ispirato Shakespeare, basterà dire di aver visto una gran bella rappresentazione“.
Il messaggio quindi perde di valore nel momento in cui viene focalizzata l’attenzione sulla spettacolarità della rappresentazione e progressivamente si perde anche l’attitudine nel riflettere sul perché si è scelto di mettere in scena un determinato testo. L’urgenza di comunicare un messaggio viene relegata ad una dimensione meramente estetica. Viene meno dunque la riflessione che il pubblico dovrebbe fare al termine di ogni spettacolo, che esuli da una prima analisi tecnica o qualitativa. Il pubblico infatti è la finalità ultima e centrale, perché è proprio a quest’ultimo che il teatro – e chi lo fa – dovrebbe rivolgersi.