L’apertura della mostra The Dreamers ha dato fiato a una polifonia di voci e a un sorprendente ritmo di opere, grazie al coinvolgimento di oltre 60 artisti che ha dato un giro di volta allo storico October Salon, nato nei primi anni Sessanta.
Con questa edizione abbiamo portato molti degli artisti a lavorare sulla città, negli spazi pubblici, nel parco del Museo della Yugoslavia, e persino nelle abitazioni private, attivando collaborazioni con piattaforme media come la tv serba RTS3 e Radio Belgrade Channel 2, muovendoci negli spazi del Cultural Centre di Belgrado e in quelli della venue principale il Belgrade City Museum, storico edificio militare dal fascino decadente.
Sulla facciata del palazzo campeggia imponente la bandiera realizzata da David Horvitz, Give Us Back Our Stars, cucita a mano da Shkurte Halilaj, la madre di Petrit Halilaj, artista che ha rinunciato alla propria partecipazione a causa del fatto che il Kosovo, suo paese di nascita, non sia riconosciuto dalla Serbia. Un’opera che rappresenta un po’ il simbolo del valicamento nel mondo dei sogni, una soglia che viene varcata entrando nel portone dell’edificio e indica un attraversamento storico, geografico, politico e culturale.
Come le porte di The Matrix la mostra porta il visitatore in mondi diversi e paralleli, che vivono “ovunque e ora”.
The dreamers: la mostra
La mostra presenta la premiere mondiale di importanti produzioni di artisti con i quali abbiamo attivato lunghe collaborazioni: e così il cielo losangelino di Alex Israel spicca con i toni dell’azzurro e del rosa nel cielo afoso di Belgrado, mentre la costellazione di poster di Aleksandra Domanović, che si palesa inaspettatamente in ogni angolo della città, mette in discussione la capacità di osservazione dello spettatore, e ci ricorda la convivenza di lingue e culture diverse nell’area dei Balcani.
Le performance hanno ritmato i giorni di apertura come l’incursione notturna di Max Hooper Schneider e della band locale Pshycotherapyche che ha aperto ufficialmente il Salon, quelle delle artiste serbe Sanja Ćopić e Sonja Radaković, quella di Davide Balula in cui performer in fattezza di uccelli si mischiavano al pubblico, o quella di Invernomuto realizzata al Branko’s Bridge.
L’emozione ha tradito anche noi attraversando il corridoio di dentature di Wong Ping, le pareti rocciose di Jean-Marie Appriou, la foresta incantata di Daniel Steegman Mangranée, il mondo fiabesco di Precious Okoyomon, o la stanza assoluta di Claudia Comte, opere che sembrano parlarci da sempre, che toccano le corde più autentiche, i legami familiari, la sfera animale, l’ignoto.
Il suono è tra i protagonisti della mostra, in un equilibrio di risonanze, di pieni e di vuoti, di voci e rumori, in una eco che accompagna il pubblico in tutto il percorso, tra le note melodiche di Blue Moon di Alex Da Corte che invadono gli spazi del museo, le strade di Belgrado e ogni sera alle 20.55 (su RTS3) le abitazioni private, o l’installazione di Pierre Huyghe, che nell’echeggiare John Cage (Dream, 1948) crea, con i suoi 48 wind chime allestiti tra gli alberi del parco del Museo della Yugoslavia, un mondo di magia, un bosco incantato, un luogo sospeso…