(Adnkronos) – “Non sembra così avvincente, il tema del terzo mandato dei governatori delle regioni. Eppure non andrebbe preso alla leggera. Racchiude in sé, infatti, almeno due chiavi di lettura. La prima verte sui rapporti di forza. La seconda verte sui princìpi. E come sempre quando le due cose si sommano è segno che è in ballo qualcosa di importante. La prima chiave è sotto gli occhi di tutti. La prova di forza tra Meloni e Salvini, a proposito del Veneto (e non solo). E un po’ anche la prova di forza tra Schlein e i governatori del Pd. Dispute simboliche e di potere che possono decidere le sorti dei leader e che non per caso occupano le cronache politiche di questi giorni.
Dispute che ovviamente non sarebbe giusto sottovalutare. In particolare a destra, dove la premier e il suo vice sembrano giocarsi la rappresentanza del nord, laddove fino a ieri imperava la Lega e dove invece FdI si propone ora di insediare e far valere il suo primato numerico e politico. E però l’argomento si presta anche a una interpretazione più profonda e significativa, che riguarda la pretesa di longevità del ceto politico. Tema su cui sarebbe il caso di ragionare più in profondità, dato che quella pretesa, chiamiamola così, agita la politica in molte contrade. A partire dagli Stati Uniti e dalla sfida presidenziale tra i due giovanotti che si contendono la Casa Bianca. Detto un po’ brutalmente: quanto a lungo può durare un incarico politico? Quante legislature per i deputati e i senatori, quanti mandati per i sindaci e i governatori?
La legge del nostro paese consente ora di trascorrere in Parlamento anni e anni. E impone invece che gli amministratori locali tolgano il disturbo, se così si può dire, dopo dieci anni al massimo. E già qui si rintraccia una contraddizione. Poiché chi governa un territorio è ben visibile agli occhi dei cittadini, chi rappresenta la nazione appare invece un pochino più distante dalla loro visuale. Ma c’è un’aggravante. Ed è che i parlamentari, di questi tempi, sono eletti un po’ alla cieca. Con questa legge elettorale infatti il più delle volte si tratta di dirigenti paracadutati, scelti dai capi dei loro partiti in ragione della loro ubbidienza e spesso quasi estranei al contesto che pure produce i voti per farli entrare a Montecitorio e a Palazzo Madama.
Dunque, forse sarebbe più giusto comportarsi con più severità verso di loro e magari consentire agli amministratori locali, più legati al territorio, di disporre di un tempo più lungo. Peccato che le decisioni che si annunciano stiano andando invece nella direzione opposta. E qui però si viene al nodo, che nessuno sembra voler sciogliere. E cioè al senso e alla durata di un mandato politico. E’ una questione di principio. C’è chi pensa che la politica sia un’attività professionale vera e propria.
Un mestiere, verrebbe da dire. E dunque che l’esperienza, la competenza, la resilienza siano parte fondamentale del compito che si è chiamati a svolgere. Dunque, nessuna improvvisazione, nessun dilettantismo. Al capo opposto di questo modo di vedere le cose c’è chi invece inveisce contro la casta e nega che la politica possa mai essere una specializzazione. Anzi, invoca il ricambio e perfino l’inesperienza a garanzia di una sorta di pulizia morale. Si tratta di posizioni estreme, a cui hanno dato voce vecchi dirigenti e nuovi tribuni, qualche volta cambiando idea e il più delle volte adattando le idee al proprio vantaggio.
La prova non proprio brillante che i ‘dilettanti’ hanno dato di sé ogni volta che gliene è stata offerta l’occasione induce a rivalutare i professionisti di un tempo. Ma la resistenza al cambiamento che i professionisti a loro volta oppongono alle ragioni del ricambio e del rinnovamento finisce per dare un credito immeritato alla denuncia contro la ‘casta’ e alla cupa visione che la sottende.
E’ un classico caso in cui occorrerebbe seguire una via di mezzo. Magari chiedendo ai professionisti di non esagerare con quel loro tenace e patetico abbarbicarsi allo scranno. E togliendo così, con qualche gesto più generoso, ai loro sfidanti la cupezza del sospetto e l’alibi della demagogia”. (di Marco Follini)
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