«Noi autori di teatro vogliamo spesso aver l’aria di non tener conto del contatto con gli spettatori, ma la verità è che, se un tale contatto ci manca, possiamo facilmente cascare in una malinconica inerzia». Così scriveva il drammaturgo napoletano Roberto Bracco, ormai quasi sessantenne, nell’agosto del 1918. In quegli anni le urla della prima grande guerra continuavano a risuonare nell’aria, mentre la lunga ombra del fascismo si preparava ad impadronirsi dell’Italia e Bracco andava incontro a quella perdita di contatto con i suoi spettatori. Esiste un solco, un buco nero, tra la storiografia ufficiale ed uno degli autori più rappresentati in Italia e all’estero, per giunta proposto per il Nobel, tra la fine dell’ottocento ed i primi anni del secolo breve. Le sue opere sono state tradotte in quasi una decina di lingue, rappresentate in tutta Europa e furono interpretate dai maggiori artisti del tempo da Emma Grammatica ad Eleonora Duse, passando da Ruggiero Ruggieri, Ermete Zacconi e a Franco Ricci. Tuttavia il vuoto scavato dal regime fascista e dalla critica hanno isolato il genio di Bracco, anticipatore di tematiche e di stili, fino a schiacciare l’intellettuale antifascista sotto i piedi dei giganti – pirandelliani e non – del suo tempo.
Giovanni Meola, drammaturgo e regista, riporta in scena dopo cento anni dalla sua scrittura “L’internazionale” di Bracco che fu rappresentato per la prima volta nel febbraio del 1915 al Carignano di Torino dalla compagnia di Tina Di Lorenzo. Questo testo insieme a “L’amante lontano” e “Ll’uocchie cunzacrate” sono raccolti da Bracco per la loro affinità di contenuto, ossia per i «riverberi della guerra». In particolare nell’opera emergono contenuti che sotto la forma di pièce teatrale anticipano il piano della realtà. Sono messe in bocca ai personaggi dall’autore battute come ormai «la gente si porta allo spettacolo le proprie opinioni politiche» oppure «un imbroglio chiamato Europa» che può essere gettato via dalla finestra per un capriccio. Stiamo parlando di un atto unico in grado di celare al suo interno dei sottili fili rossi che immettono sangue vivo nei personaggi . «È il 1914 – scrive Meola nelle note di regia – e l’Italia non è ancora in guerra. La bella Mignon, canzonettista apparentemente spensierata, avvisata dal suo manager-amante che potrebbe avere difficoltà con il suo repertorio di canzoni internazionali, non sembra affatto interessarsene. L’attenzione di Mignon è tutta rivolta ad una enorme cartina geografica dell’Europa in guerra dove muoiono già migliaia di giovani». Lo spettacolo in scena alla Galleria Toledo di Napoli dal 29 ottobre al 2 novembre vede gli attori Sara Missaglia, Luca di Tommaso, Luigi Credendino e Simona Pipolo interpretare rispettivamente i ruoli di Migon Floris che l’autore descrive come un volto fresco, fatto di sorrisi, che non sorride più; Renzo, egoista perché neutrale; il Cavaliere Leonardo Aprile con la sua ridicola ostentazione di signorilità e Virginia, una contadinotta che serba la sua primitiva aria di oca sotto la civetteria della cuffietta alla francese.
In occasione dell’incontro che si è svolto il 27 ottobre allo spazio Nea di via Constantinopoli, il regista Giovanni Meola ha presentato il suo lavoro partendo proprio dal rapporto con il drammaturgo che più di tutti rappresenta un caso di damnatio memoriae. «L’incontro con Bracco è nato per caso. Dopo un primo momento di diffidenza data dalla lontananza storica e da una volontà di mettere in scena testi miei. Solo in seguito crescendo e allargando il confronto con altri autori come Molière (“Le preziose ridicole”) e Pirandello (“Pirandellando”) – ma anche con autori contemporanei ed è il caso di Luigi Credentino (“Munno e terzo munno”) che lavora con me da molti anni ed è presente in questo spettacolo – ho incominciato la riscoperta dei trentasei testi di Bracco. Sempre per caso, un po’ di tempo fa, ho incontrando un amico documentarista che stava lavorando anche lui su Bracco e ci siamo confrontati, scambiandoci informazioni ed energia. Infine, una decina di mesi fa ho incominciato a studiare la figura di Bracco e contemporaneamente ho preso coscienza della sua rimozione dalla storia. Quasi nessuno si ricorda più di lui, teatranti compresi. Mentre, per quanto riguarda lo spettacolo, ho costruito la regia partendo dalla mia sensibilità di uomo del nostro tempo. Quando vado a teatro mi interessa vedere dei personaggi che siano vivi, che abbiano una loro vita concreta, che non siano imbalsamati. Sicuramente ho lavorato su una immediatezza e su una verità di rapporti che poi è quello che mi piace vedere. Questo ha coinvolto anche l’adattamento che ho fatto del testo. Non ho stravolto di molto l’impianto drammaturgico, ma comunque ho lavorato sul linguaggio rendendo più immediato. A volte basta cambiare un verbo, usandone uno più riconoscibile ad oggi, oppure sostituire semplicemente un termine oggi desueto per rendere più concreto e vivo il personaggio». Inoltre, Meola ha affermato che questo lavoro è sicuramente il primo di una riscoperta, oppure forse una futura riscrittura sull’autore, delle opere di Bracco.