Lo spettacolo girovago Taranterra calca per la prima volta le tavole di un palcoscenico. Dopo 60 repliche in giro per la Campania, in siti di interesse storico, archeologico e artistico – dall’abbazia di Sant’Angelo in Formis a Capua al chiostro della basilica di San Vincenzo alla Sanità, dai ruderi di Sant’Eusatchio a Scala al sacello degli augustali a Miseno, dalla foresta regionale di Cuma alle basiliche paleocristiane di Cimitile passando per l’ex ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi e il museo del sottosuolo –, va in scena al teatro Bolivar di Materdei con un riallestimento speciale per un’unica data.
Taranterra, che il 21 giugno del 2012 debuttò a Nola nella piazza dedicata Giordano Bruno, è la messa in scena dell’omonimo testo poetico di Mimmo Grasso. Un testo che non nasce per il teatro ma che contiene al suo interno straordinarie suggestioni visive tali, da sfociare naturalmente in una riscrittura in chiave scenica. È uno spettacolo in cui gli attori danno vita agli oggetti, ai quadri e ai loro abitanti evocati dai versi, servendosi esclusivamente dei propri corpi, di tammorre, bastoni e tessuti che trasformano e ridisegnano lo spazio dell’azione, evocando ora la tenda nel deserto di un anacoreta, ora una processione, una penultima cena, una piazza d’armi, una distesa assolata di grano, un formicaio, un tempio, un pantano, una giostra, un giaciglio, una fossa.
Taranterra rimanda alle esperienze liminali di ogni uomo: la nascita, la tenerezza materna, le ferite d’abbandono, la necessità del conflitto, l’incontro con l’altro/a, il ricongiungimento, il confronto ultimo con sé stessi e con ciò che si è raccolto nella propria esistenza e riporta tutto questo alla storia irraccontabile dell’istante in cui un uomo (o l’uomo?) nasce/muore/nasce o forse dell’attimo in cui l’eterno ritorno si trasmuta per sempre in ricordo placato, senza rancore, guarito.
Taranterra, il poema in versi di Mimmo Grasso, è stato pubblicato nel 2009 per i tipi de Il filo di partenope in 200 esemplari numerati, con incisioni di Mario Persico e la copertina ottenuta impastando sabbia di un termitaio africano per raggiungere l’effetto vento-di-scirocco. Il regista ha scorto nel testo due ‘miracoli’ da raccontare: «Il primo, quello di un uomo che guarisce attraverso la parola/azione, il secondo – comune a tutta la poesia quando è poesia – relativo alla dissoluzione della parola che, da segno astratto, si trasmuta in vibrazioni dell’anima».