Quando la suggestione di un principio porta a contraddirlo
E’, a volte, il troppo amore di un principio che porta a contraddirlo. Così è avvenuto nel caso della legge della regione Campania 27 marzo 2009, n. 4, che, nel riformare il sistema elettorale, si è posta l’obiettivo, non poco ambizioso, di garantire la par condicio tra uomini e donne nella composizione degli organi regionali.
Iniettando gli anticorpi in un sistema immunitario dagli equilibri complessi, il legislatore regionale si è spinto a prevedere, all’articolo 4 del provvedimento, che l’elettore, nel caso di espressione di due preferenze per candidati di una stessa lista, debba indicare un candidato di genere maschile e l’altro di genere femminile. Non solo, poi, si è disposto, all’articolo 10, che in ciascuna lista non possa esservi una “rappresentanza di genere” per più di due terzi dei candidati, ma si è altresì presidiata la nuova normativa con efficaci deterrenti. Ove, infatti, la lista non osservi, a monte, la soglia dei due terzi per la rappresentanza di ciascun genere, verrà esclusa dalla tornata elettorale; qualora sia, invece, l’elettore ad indicare, a valle, due candidati di genere maschile, si vedrà annullare la seconda preferenza.
E’ evidente che il provvedimento campano abbia, alla sua base, il nobile intento di garantire alla donna pari opportunità nel concorrere all’amministrazione della cosa comune. Non c’è opportunità che sia pari ove manchi la facoltà dei rappresentanti di entrambi i generi di accedere, alle stesse condizioni, ad uffici e cariche elettive. Non c’è, pari modo, uguaglianza, ove il legislatore, trincerandosi dietro proclami formali, non garantisca un equilibrio sostanziale tra generi, nella realtà della vita pubblica.
Che, poi, la dimensione naturale della donna abbia, nel tempo, prevalso su quella individuale o sociale è cosa che la stessa storia dimostra. L’assolutizzazione della funzione procreativa ha condotto, persino nelle società più evolute, all’esclusione della donna dallo spazio politico ed al suo confinamento nel perimetro domestico. Così è avvenuto nella società greca e in quella romana, così nel medioevo e nell’umanesimo, così finanche nell’età dei lumi e nell’epoca delle rivoluzioni borghesi. I diritti umani, ed in particolare le libertà civili e politiche, non sono cresciuti per tutti né sono stati potenziati allo stesso tempo e allo stesso modo. Quando si proclamava il carattere assoluto e inderogabile dei diritti fondamentali, lo si faceva nella forma, mentre, sul piano applicativo e sostanziale, si continuava a distinguere tra uomo e uomo, tra genere e genere. Quasi che il concetto di ‘umano’, quale attributo di ‘diritto’ non comprendesse anche le donne, era d’uso, fino a tutto il secolo XIX e – per molte nazioni – ancora oltre, considerare queste ultime incapaci naturali al pari dei bambini, soggette alla potestà prima paterna e poi maritale, e così sprovviste del diritto di votare e di accedere alle cariche pubbliche.
Lo stesso pensiero giusnaturalista, considerando la natura quale fonte dei diritti individuali, senza tuttavia concordare su cosa per natura dovesse intendersi, ha favorito il diffondersi di interpretazioni molteplici e dissonanti. Certa lettura fondamentalista ed ideologica del testo biblico induceva, poi, a ritenere che la derivazione fisica della donna dalla costola dell’uomo implicasse la superiorità naturale di questi su quella. Così il razionalismo di matrice kantiana, pur esaltando l’autonomia e la libertà del soggetto sul piano ontologico e morale, finiva, per ammettere la relatività del principio, considerando la subalternità femminile in tutto conforme a natura. Come la donna fosse una sorta di strumento al servizio dell’uomo, naturalmente preposta a soddisfarlo, e come la sua felicità non suonasse “io voglio”, ma “egli vuole” lo esprimeva finanche la filosofia nietzschiana della crisi del positivismo.
Dal sostrato culturale anzidetto sono discesi i codici borghesi e le costituzioni liberali del 1800 e, così, per ragioni specularmente opposte, le Carte fondamentali del secolo XX. Con lo svilupparsi, all’indomani della Rivoluzione industriale, dei diritti sociali o di “seconda generazione”, la formazione delle organizzazioni femministe nei paesi anglosassoni, la partecipazione attiva delle donne al primo conflitto mondiale, si è cementata la base di un diritto, anche delle rappresentanti del genere femminile, a votare e ad essere votate.
Se questo è il contesto storico e concettuale in cui va inquadrata la recente legge della regione Campania, bisogna interrogarsi sulla compatibilità effettiva delle soluzioni adottate con gli altri diritti di libertà , egualmente degni di essere tutelati, con il rapporto tra legislazione statale e regionale secondo il diritto costituzionale vigente e con lo stesso principio di eguaglianza sostanziale tra uomo e donna.
Va, anzitutto, ad incidere – il dettato normativo – sul diritto all’elettorato attivo e passivo che la Costituzione repubblicana garantisce. Dall’obbligo di indicare candidati di genere diverso può discendere una compressione del diritto di voto che, in modo pieno e senza limite di sorta, compete a ciascuno; dall’imposizione della soglia dei due terzi nella composizione delle liste può, invece, derivare una restrizione dello speculare diritto del singolo all’elettorato passivo. Dalla somma algebrica delle limitazioni disposte rischia di scaturire, insomma, una violazione del combinato degli articoli 3, 48 e 51 della Carta fondamentale.
Ove, poi, si pensi che all’obbligo di voto di un candidato su due di genere femminile si sia aggiunta la previsione per cui alla coalizione vincente venga assegnato, quale premio di maggioranza, un numero di seggi almeno pari al sessanta per cento, può risultare altrettanto compromessa, insieme alla rappresentatività , l’indisponibile sovranità popolare che l’articolo 1 consacra. E tutto ciò è ancor più vero laddove si calcoli il rischio, notevolmente rilevante sul piano pratico, del proliferarsi delle schede nulle – rischio che la novella in commento potrebbe incrementare.
Se è, poi, vero che le Regioni godono di uno status di autonomia nell’ordinamento nostrano, va parimenti rilevato che di libertà sconfinata non può certo trattarsi. Resta, infatti, l’obbligo dei Consigli regionali di legiferare nel rispetto, oltre che degli obblighi comunitari ed internazionali, dei principi di cui alla Carta costituzionale e di quelli generali in ogni caso espressivi di valori supremi. Nello specifico della materia elettorale, poi, la potestà legislativa regionale è concorrente, dovendosi esercitare nel rispetto dei principi fondamentali dettati dalla normativa statale, oggi rappresentata dalla legge 2 luglio 2004, n. 165, attuativa dell’articolo 122 c. 1 Cost. E’ discutibile che i disposti campani siano compatibili con il dettato della legge citata, che oltre a non contemplare ipotesi di esclusione delle liste per motivi di equilibrio tra generi, considera la violazione della parità di accesso alle cariche rilevante, se pur ai fini dell’ineleggibilità in senso tecnico, solo laddove sia discesa dalle attività o dalle funzioni svolte dal candidato. Ed è, in ogni caso, dubbio che i richiamati impedimenti al libero concorso alle tornate elettorali risultino conformi al principio dell’irrilevanza giuridica, per l’ordinamento statale, dell’appartenenza a questo o quel genere.
Ci si chiede, infine, se limitazioni come quelle introdotte dalla legge campana conducano, effettivamente, ad un potenziamento della parità , o se finiscano, piuttosto, per allontanarsi dall’obiettivo. Il riconoscimento espresso di una diversità – com’è quello che discende dalla normativa in commento – può avere l’effetto distorto di acuirla. Il diritto all’uguaglianza è sacrosanto, e sacrosanto è il diritto alla differenza, che con quello di uguaglianza è un tutt’uno. Nondimeno, trattare come diverso ciò che ontologicamente e socialmente non lo è va solo a produrre differenza, fomentando i pregiudizi collettivi.
Salvaguardare il principio della parità al prezzo di coartare la volontà dell’elettore o di forzargli la mano equivale a negare quella stessa libertà che si voleva tutelare. Significa, insomma, che da un farmaco ne è scaturito un veleno: sull’onda della suggestione di un principio, si è, di fatto, finiti per disconoscerlo.
Andrea Giordano
dottorando di ricerca in Diritto Processuale Civile
presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza