Importata dai lontani cugini americani, la break dance sempre più in voga tra giovani, ma soprattutto tra i giovanissimi. Una danza che nasce per strada, ballata principalmente da afro e latino-americani nel malfamato quartiere del Bronx di New York.
È andata incontro negli anni ai tanti pareri discordanti per il suo essere solo per “gente di strada”, invece con il passare dei decenni, la stessa disciplina ora, fatta da movimenti a stretto contatto con il pavimento, entra a partire dagli anni 80′ nella grande famiglia della cultura hip hop.
L’Italia in questi anni non è stata guardare, tanti i luoghi storici del breaking, quali il Teatro Regio di Torino, il muretto a Milano, i portici di fronte al Longines in Piazza Piccapietra a Genova, la Galleria Colonna a Roma. Nascono cosi le prime generazioni di ballerini che vivono di “street art” e l’organizzazione di festival e competizioni afferenti quali Bboy Event, Hip Hop Connection e Battle of the Year Italia.
Un ragazzo che ce l’ha fatta, dimostrando che si può vivere di hip hop, di break dance, che lancia un messaggio chiaro, pulito e fatto di tanti sacrifici. Gabriele Quaranta, in arte Omed, un bboy che abbiamo avuto il piacere di intervistare presso la Street Art Ground di Frattamaggiore, ove ha incontrato e svolto un workshop con le nuove piccole leve.
Ciao Gabriele, ci dici qualcosina in più su di te?
Sono Gabriele Quaranta, in arte Omed, ho 28 anni, sono un ballerino di break dance dal 2001. Quando ho cominciato io ero giovanissimo a 13 anni, ora insegnando, ho tanti alunni che iniziano in tenera età, dai 6 agli 8 anni. Vivo della mia arte a 360 gradi, insegnando, facendo gare, partecipando a spettacoli, organizzo eventi nella terra in cui vivo, il Salento. Cerco di far accorrere quante più persone possibili, e aiuto i miei allievi a farli raffrontare e confrontare con i contesti differenti a quelli a cui sono abituati, nel migliore dei modi.
Le sensazioni quando sei a terra, volteggi tra capriole e salti?
È difficile spiegare ciò che si prova, poiché è sempre una sensazione differente inerente allo stato d’animo che si percepisce in tal preciso istante. Può capitare, che ci siano giorni che non ti va manco di ballare, però a terra come in cielo mi sento una bomba ad orologeria. Do il meglio, sempre più forte del pezzo che sto ballando.
Qualcosa o qualcuno ti ha spinto alla break? Come ci sei arrivato?
Nessuno in particolare, tutto è nato per caso. Ero in piazza a Mesagne(Br), il paese in cui vivo. Era stata organizzata proprio una manifestazione di break. Sono stato folgorato da quei salti, quelle capriole, quei disegni sui muri e graffiti. Da lì, affascinato da ciò che avevo visto, sono andato a chiedere informazioni per cominciare un similare percorso. In tal circostanza ho conosciuto il mio maestro, Arturo La Palma, divenuto negli anni il mio secondo padre.
Cosa vuoi trasmettere al pubblico che ti guarda, cosa intendi che percepiscano?
Danziamo principalmente per passione. Con questo pilastro fondamentale trasmetti alle persone le stesse tue priorità, quell’energia positiva che li rende automaticamente felici, coinvolgendoli. Noi balliamo guardando sempre la folla, il pubblico dritto negli occhi. Bisogna essere bravi a instaurare un feeling con tutti i presenti, che sia durante una manifestazione, un evento o uno spettacolo.
Hai un target di riferimento a cui ti ispiri?
Non necessariamente. Come giusto che sia, durante una mia performance, un bambino è molto più preso, attratto. Mentre un adulto, si ferma a guardarmi, magari perché il proprio figlio, è lì che mi guarda, e quindi quasi come un anello di congiunzione, ne viene coinvolta tutta la famiglia.
Gabriele, partendo dalla break, hai messo su questa piccola tua “azienda”, divenendo cosi il manager di te stesso. Riesci a trovare il tempo per allenarti? Se si, quante ore?
Mi sono allenato tanto negli anni, ora alleno lo stato mentale. Quando entro in sala ballo. I tanti anni di gavetta mi hanno dato ora forza e consapevolezza di ascoltare un pezzo e creare dal nulla una coreografia.
Per quanto riguarda le coreografie invece, sono studiate o improvvisate?
Dipende. Quando partecipiamo al “Battle of the Year”, la competizione più importante a livello nazionale, ci vogliono 5/6 mesi, mentre per un saggio, avendo anche dei risvolti ludici, per me è di fondamentale importanza al di là della coreografia stessa, fa divertire i ragazzi. Il breaking che faccio io è studiato tutto nei minimi particolari.
Oltre la tua singola attività, fai parte di gruppo, giusto?
Faccio parte dal 2009 con i De Klan, gruppo con sede a Roma. Siamo partiti come un team, tutti con lo stesso obiettivo, partecipando a tutti a contest e gran parte li abbiamo vinti. Da team siamo divenuti una crew. È una connessione tra Mesagne, Napoli e Roma.
Il tuo nome d’arte Omed, ci spieghi da dove deriva?
Quando mi sono avvicinato alla cultura hip hop, non mi dissero subito che bisognava trovarsi uno pseudonimo. Nel nostro ambiente il nome è di fondamentale importanza, poiché da lì parte la tua storia. Non avrei mai potuto creare una storia come Gabriele, poiché ce ne sono già tantissimi. Gabriele Omed sono io. Omed, è una parola formata dalle lettere che meglio sapevo disegnare con il writing.
C’è qualche differenza tra Gabriele e Omed?
No, sono sempre io in tutte le occasioni. Non può esistere Gabriele senza Omed e viceversa.
Progetti futuri?
Io ho sempre progetti. Il breaking è una disciplina che non ti permette di farlo a vita. Tuttavia io voglio che sia parte integrante in tutte le sue sfaccettature per sempre. Ho una scuola di danza a Mesagne e una crew di allievi, Type Comics, balliamo divertendoci e allietando chi ci guarda. Per quanto riguarda il futuro, quando deciderò di fermarmi a livello agonistico, mi dedicherò ad insegnare e agli eventi.