Esaurite (si fa per dire) la fonetica e la morfologia, passiamo al lessico, seguendo alcune parole interessanti nel loro significato e a volte nella loro storia recente o antica.
Qui – l’abbiamo detto altre volte – ci limitiamo a dire solo ciò ch’è utile a scrivere e a parlare il napoletano in modo consapevole, senza autocompiacimenti ma senza complessi.
Nessuna pretesa di autorevolezza scientifica, per carità! Ma state certi che sciocchezze non ve ne diremo, o almeno ci sforzeremo di non dirne (po’, stammo sott’ ’o cielo).
Neppure ci addentreremo in analisi linguistiche dettagliate, rimandando per ciò ai testi o ai siti web redatti da specialisti.
ncignà
E così incigniamo questa seconda parte del corso. Dovevo dire “inauguriamo”? O mettere in corsivo o tra virgolette “incigniamo”? Ma il napoletanissimo verbo ncignà ha il suo gemello “incignare” nel dizionario italiano, che lo dà come “regionale toscano”, anche se poco noto in quanto il verbo incignare è oggi usato – a quanto ci risulta da testimonianze vive del luogo – in area pisana più che a Firenze.
Gli studiosi sono d’accordo nel far derivare la voce dal latino tardo encaeniare, che a sua volta riporta all’aggettivo greco kainòs “nuovo”.
I Greci chiamavano le feste di inaugurazione o di dedicazione di un tempio Enkàinia, e i Latini Encaenia. E fra il IV e il V secolo d.C. il verbo encaeniare era già usato nel parlato per dire, ad esempio, che si indossava una tunica nuova (il nostro m’aggio ncignato nu vestito): lo annotava sant’Agostino, come ricorda Enrico Malato in un prezioso libretto degli anni ’60.
Proprio riferito a un vestito nuovo si trova il verbo in una deliziosa canzone del 1913, Tarantella luciana, di Libero Bovio ed Enrico Cannio.
L’innamorato dovrà – e lo farà ovviamente con estremo piacere – indossare un vestito nuovo per poter ballare con la sua bella:
Aggio fatto nu pigno
ma cu gusto e piacere:
si stasera me ncigno
m’aspetta l’onore
c’abballo cu tte.
’A notte e ’a nuttata
Riflettendo sul comunissimo vocabolo notte, protagonista di tante poesie e canzoni (chi non ricorda il famoso notturno di Leopardi “Dolce e chiara è la notte e senza vento” o, in musica, i notturni di Chopin?), abbiamo notato che nei più comuni dizionari di napoletano esso non c’è. Scartata ovviamente l’ipotesi che in napoletano non esista, abbiamo pensato che la sua coincidenza con l’italiano abbia reso superfluo annotarlo.
C’è però in tutti i vocabolari un’altra parola, nuttata, che esiste anche in italiano. Peraltro, nei vecchi (ormai antichi) dizionari si leggono entrambi, notte e nuttata, ma senza una specifica delle differenze.
Eppure la differenza c’è: la notte è l’evento che si ripete quotidianamente, mentre la nuttata è la notte nella sua durata. Il che è vero anche per l’italiano, se usato nel modo preciso dei poeti:
“Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato”, recita la struggente poesia di Ungaretti “Veglia”.
In questo senso il napoletano è più poetico, perché più preciso dell’italiano, più puntiglioso nelle differenze.
Per chi trascorre la notte al lavoro o a vegliare un ammalato, ad esempio, diciamo che “fa la notte”, mentre in napoletano è d’obbligo dire che fa ’a nuttata. L’italiano “per tutta la notte” diventa in napoletano pe’ tutt’ ’a nuttata.
Interessante è un verso della famosa canzone Luna caprese (di Augusto Cesareo e Luigi Ricciardi, 1953, che i nostri coetanei hanno ascoltato “alcuni” anni fa dalla voce di Peppino Di Capri e che abbiamo già avuto modo di citare nella sesta lezioncina):
e nu mistero ’int’ ’a ’sta notta chiara
dove la notte non è considerata nella sua durata, ma come evento miracoloso che si presenta ai nostri occhi incantati.
Ma la differenza si avverte in pieno nei versi della prima strofa di Nuttata ’e sentimento, celebre canzone del 1908, scritta da Alessandro Cassese e musicata da Giuseppe Capolongo.
Che notte, che notte!
Che luna e che mare!
Stasera me pare
scetato ’e sunnà.
Cu st’aria serena
ca scippa d’ ’o core
suspire d’ammore,
durmì nun se po’.
Chiara è ’a luna, doce è ’o viento,
calmo è ’o mare, oje Carulì:
sta nuttata ’e sentimento
nun è fatta pe’ durmì.
(“Che notte, che notte! Che luna e che mare! Stasera mi sembra di sognare da sveglio. Con quest’aria serena, che ruba dal cuore sospiri d’amore, non è possibile dormire. – Chiara è la luna, dolce è il vento, calmo è il mare, o Carolina! Questa notte di sentimento non è fatta per dormire!”)
L’espressione iniziale, Che notte!, allude allo spettacolo e all’atmosfera che si sprigiona dal mare calmo e dalla luna che con la sua luce squarcia il buio; il soggetto è in barca, forse è un pescatore che voca, cioè rema, per andare al suo lavoro, e sogna ad occhi aperti: quella notte così magica non è fatta per dormire (né evidentemente per lavorare), ma per l’amore. In quest’ultimo senso però la notte è chiamata non più notte, ma nuttata, perché è vista nella sua durata, come notte d’amore (sia pure solo desiderata, come si evince dalle strofe successive).
E mo se sta facenno notte, avessem’ ’a passà na brutta nuttata? Ce vedimmo dummeneca che vvene!