Bruno Arcari nasce nel 1942 ad Atina, piccolo comune del frusinate. Gli specialisti l’hanno definito come «il più forte pugile d’Italia di ogni tempo, assolutamente superiore a qualsiasi avversario al mondo», come il giornalista Franco Dominici, autore di volumi tra cui Benvenuti. Quella notte del 1967, il quale in Storia del pugilato, di Orlando “Rocky” Giuliano (Longanesi & C., Milano, 1982, pag. 94), afferma: «Tutta la sua carriera è stata caratterizzata da una suggestiva, ma spesso fraintesa ricerca della coerenza: da uno struggente bisogno di semplicità, di cose umili, vere. Ecco come e perché il più grande dei nostri pugili [ … ] è risultato il meno applaudito». Nonostante questo peccato di eccesso, Arcari occupa comunque un posto in primo piano nella storia del pugilato italiano e mondiale.
Di carattere schivo, la boxe di Arcari, guardia destra, era fatta di concretezza, poco incline allo spettacolo, alla pubblicità e al mondo dei mass-media che lo resero impopolare, nonostante importanti successi. Disputò 73 incontri: 70 vinti, di cui 38 per k.o.; 1 pareggio, contro Rocky Mattioli; 2 sconfitte: la prima, che era anche il suo primo incontro da professionista, l’11 novembre 1964, per k.o.t. alla quinta ripresa, per una ferita procuratagli da una testata dell’avversario, in un incontro che Arcari stava vincendo ampiamente ai punti e che si avviava verso un trionfo per il pugile frusinate; la seconda, il 10 agosto 1966, sul ring di Senigallia, per k.o.t. alla decima ripresa a seguito di ferita, contro l’anconetano Massimo Consolati: si boxava per il titolo italiano dei welters junior, categoria istituita poco tempo prima, che il marchigiano mise in palio dopo averlo sottratto, nel 1964, al primo campione italiano di questa categoria, Sandro Lopopolo. Arcari si presentò all’incontro con un palmares di 10 vittorie consecutive). Ma nulla poté Consolati al terzo incontro: nel dicembre 1966, a Genova dovette cedere la cintura ad Arcari per squalifica nel settimo round.
Arcari iniziò a tirare di boxe a Genova, dove si era trasferito da giovane, sotto la guida di un vero guru, un mito del managerismo pugilistico italiano, Rocco Agostino, ex tranviere genovese deceduto nel 2006 a 75 anni (manager anche Patrizio Oliva, Masimiliano Duran, Mauro Galvano, Nino La Rocca), diventando ben presto un ottimo pugile dilettante, vincendo il titolo italiano. «Un binomio inscindibile, il loro, che portò Arcari a diventare il re del pugilato italiano. Ma quanto re? Più di Benvenuti? Di Loi? Di Carnera? Un esperto come Rino Tommasi, che da organizzatore allestì alcuni match del campione, ha scritto di considerare Arcari «il miglior pugile italiano di ogni epoca, nei limiti in cui un’affermazione del genere è possibile». Sono in molti a pensarla come lui. Bruno sorride e analizza: «Benvenuti è stato più grande da dilettante che da professionista. Aveva poco fisico e lo si è visto quando ha perso con Monzon. Loi era un maestro, come faccio a dire che ero meglio di lui? Un pareggio va bene? Ma sì: Duilio e io in cima alla storia, gli altri dietro, questa la mia classifica» (Claudio Colombo, Ora lo ammetto: ero il migliore, in «Corriere della Sera», 12 luglio 2010). La conquista per ben due volte del titolo italiano della sua categoria (i welters junior, come abbiamo già detto, prima di passare a quella superiore dei welters) gli procurò la convocazione alle Olimpiadi di Tokyo del 1964, ma uscì dai giochi alla prima ripresa del primo incontro per una ferita all’arcata sopraccigliare.
Sovente, in seguito, le ferite al sopracciglio che si spaccava con molta facilità, con testate antisportive e vigliacche, furono terreno di conquista per gli avversari, sperando di batterlo. Ed era l’unico modo per riuscirci. Come professionista esordì l’11 novembre 1964, nel solco di quello che abbiamo detto, cioè con una sconfitta per ferita, quella citata contro Consolati, alla quinta ripresa. Arcari imparò a difendersi dalle scorrettezze degli avversari e in 61 incontri disputati, ne vinse 57 consecutivi.
Era nato un campione che s’involò alla conquista del tetto del mondo. Difese il titolo italiano diverse volte, senza incontrare avversari degni di tenergli testa. Decise quindi di affrontare il titolo europeo. Infatti il 7 maggio 1968, a Vienna, sfidò l’austriaco Johann Orsolics, campione in carica, nato a Vienna nel 1947, considerato il più grande pugile che l’Austria avesse mai avuto, battendolo per k.o.t. alla dodicesima ripresa. «Bruno Arcari – come dice il titolo di un libro che racconta la sua vita – è l’«ultimo guerriero» della boxe italiana. Nel senso che dopo di lui (anni 70) la boxe ha continuato a esistere, e i campioni pure, ma ha smesso di essere ciò che aveva rappresentato per due decenni nell’immaginario collettivo del nostro Paese: lo sport che cominciava dal popolo e arrivava al cuore del popolo. Per questa ragione tipi come Arcari, ma anche come Benvenuti, Mazzinghi, Loi, Bossi o Lopopolo, sembrano più antichi di quanto siano in realtà: dai loro momenti sono trascorsi quarant’anni e oltre, ma è come se fossero passati secoli. Sono reperti storici, eppure preziosi: testimoni militanti del cambiamento del costume sportivo, dell’evoluzione darwiniana che ha fatto selezione e scempio delle discipline povere, o semplicemente fuori dal tempo, lontane dai gusti nuovi, dalle suggestioni della modernità» (ibidem).
Prima di combattere per il titolo mondiale superleggeri WBC, difese quello europeo per quattro volte, vinti tutti per k.o. Conquistò il titolo mondiale nel 1970, battendo in 15 round ai punti, ma con verdetto unanime, il campione in carica, il filippino Pedro Adigue. Restò in carica per quattro anni, difendendo il titolo per 9 volte, dimostrando di non avere avversari al mondo in grado di batterlo. Ci provarono a strappargli la corone, in ordine di tempo, il francese Rene Roque per squalifica alla settima ripresa; il brasiliano Raimundo Dias che resistette solo tre riprese; un altro brasiliano, Joao Henrique, sfidante ufficiale che resistette 15 riprese; l’argentino Enrique Jara, liquidato per k.o. alla nona ripresa; lo spagnolo Domingo Barrera Corpas, k.o. alla decima ripresa; ancora il brasiliano Joao Henrique, e ancora in veste di sfidante ufficiale, che resistette 15 round; poi fu la volta di Everaldo Costa Azevedo, un brasiliano residente in Italia da un anno: anch’egli riuscì a resistere 15 round; il danese Joergen Hansen che superò il quinto round; lo spagnolo Antonio Ortiz, squalificato nell’ottava ripresa. Nel 1974 lasciò la categoria dei welters jr. per intraprendere quella dei welters fino al 1978, anno del suo ritiro.
Ancora Dominici, scrive: «Non avendolo molto amato, la gente lo ha subito dimenticato; avendolo dovuto sopportare, molti critici non lo hanno più cercato. Bruno Arcari è rimasto nei suoi silenzi e nelle sue abitudini, ma è stato, nella storia moderna del nostro pugilato, l’unico imbattibile». Arcari si ritirò nel 1974 come campione in carica imbattuto, dopo 9 vittoriose difese. Se Nino Benvenuti è stato il più importante ed il più famoso, se Duilio Loi ha fatto epoca, Arcari è stato indubbiamente il più convincente.