In un periodo dove l’accanimento contro le donne, fino alla loro soppressione fisica, sembra un dato quasi quotidiano, durante la Rivoluzione Napoletana, tra la fine del 1700 e il 1800, si consumò una vicenda opposta, la storia di Giuditta Guastamacchia, una bellissima giovane donna di trentadue anni, vedova e con un figlio a carico, si direbbe oggi, la quale fu processata e giustiziata dalla Gran Corte della Vicaria (a quel tempo ridefinita temporaneamente “Gran Corte Nazionale”), istituita da Carlo II D’Angiò, nata dalla fusione del Tribunale del Vicario con la Gran Corte, che costituiva la prima magistratura di appello di tutte le corti del Regno di Napoli per le cause criminali e civili, per aver assassinato il marito.
Ma chi era Giuditta Guastamacchia? «Giuditta – ci informa Antonella Orefice sulle pagine del “Nuovo Monitore Napoletano” del 19 giugno 2015 ?, napoletana trentacinquenne all’epoca del delitto, era rimasta vedova in giovane età. Il marito, a seguito di un furto, era stato giustiziato per forca. Da allora la donna era andata a vivere con un prete spacciandolo per suo zio. Tra i due nacque una relazione amorosa. Il prete, onde evitare che la cosa divenisse di pubblico dominio, fece venire dalla Puglia un suo giovane nipote di appena 16 anni costringendolo a sposare Giuditta.
Il matrimonio avvenne solo sulla carta e non impedì il prosieguo del legame amoroso tra il prete e la donna. Indispettito il ragazzo se ne tornò in Puglia minacciando di denunciare i due per il raggiro che aveva subito. Preoccupati i due amanti, onde evitare lo scandalo, presero la comune decisione di richiamare il ragazzo a Napoli per poi ucciderlo.
Lo sventurato marito di Giuditta fece ritorno nella capitale accompagnato dal padre di lei e da un barbiere. In casa con i due amanti da un po’ di tempo era ospitato anche un chirurgo: sarebbero stati tutti complici di un omicidio premeditato».
Il rapporto con il nipote di don Stefano D’Aniello, il quale per nascondere la liaison amorosa con la donna si spacciava per un suo zio, aveva tutti i crismi di una farsa, un matrimonio di copertura ad una peccaminosa relazione con il prete che durava da circa dieci anni prima. Ma il giovane nipote, che aveva capito tutto, fece ritorno al suo paese in Puglia, Terlizzi, intenzionato a denunciare i due adulteri. Venuta a sapere le intenzioni del marito, Giuditta chiese aiuto al padre affinché togliesse di mezzo il malcapitato giovane. Con la scusa di un rappacificamento con la figlia, lo fece ritornare a Napoli, ma a Napoli non ci arrivò mai: fu strangolato nelle campagne limitrofe con la complicità di due balordi, ammaliati dalla avvenenza della malefica Giuditta. Non contenta di averlo fatto uccidere, impose al padre di disfarsi del corpo maciullato in modo che nessuno lo trovasse o lo riconoscesse. Con l’aiuto dei complici, un barbiere ed un chirurgo, lo fece fare a pezzi, ordinando ai complici di disperdere le parti assegnate nel bosco.
L’efferatezza del piano della sanguinaria Giuditta fu ben presto scoperta. Infatti uno dei complici, il barbiere, ad un fermo di routine da parte della guardia reale sulla strada per Capodichino, fu trovato con un sacco contenente alcune parti del corpo del giovane marito. Messo alle strette da un ferreo interrogatorio confessò tutto l’accaduto facendo i nomi dei complici: Giuditta, il padre di questa, il prete e il chirurgo. Ci fu un breve processo che condannò tutti alla forca al Largo delle Pigne (l’attuale Piazza Cavour), tranne il prete, il quale, pur presente, non partecipò al massacro. Se la cavò con un esilio a vita nelle fosse di Favignana Alla sanguinaria Giuditta, sangue caldo e peccaminoso, e a suo padre, fu riservato un macabro epilogo: tolti dalla forca, furono amputati di testa e mani. Quei resti umani furono messi sulle mura della Vicaria appesi ad una grata di ferro per lungo tempo, come voleva la legge di quel tempo per siffatti delitti.
Da quel giorno, 19 aprile 1800, nacque la leggenda di Castel Capuano: ogni anno, si racconta che tra le sue stanze, fino a quando ha ospitato giudici e avvocati, si aggirava, un fantasma, detto il “fantasma degli avvocati”, che il popolo ha sempre individuato nella figura sanguinaria Giuditta Guastamacchia.