Fare troppi scherzi al collega può costare il posto. Non è uno scherzo ma l’incredibile vicenda processuale accaduta ad un lavoratore a portare alla ribalta un tema “carnevalesco” che però non fa ridere. C’è un limite tra scherzo che non va punito e scherzo che integra addirittura una conseguenza censurabile con la massima sanzione disciplinare: il licenziamento. Ed è un sentenza a sancirlo, non una leggenda metropolitana!
Tutto prende le mosse da una causa di lavoro, i giudici hanno accolto le doglianze dell’azienda e rigettato quelle del dipendente che aveva ottenuto dalla Corte d’Appello di Torino il reintegro nel posto di lavoro perché aveva rilevato che l’aver inserito carta e altro materiale di risulta nei sedili delle auto, durante le operazioni di assemblaggio eseguite da una collega, non poteva essere considerato una giusta causa di licenziamento.
I giudici di legittimità, invece, hanno ritenuto corretto ribaltare la sentenza della corte piemontese e dare ragione al datore di lavoro. Rilevano gli ermellini, che la sentenza impugnata «non solo ha accertato la sussistenza dei fatti e la commissione ad opera del lavoratore, ma ha anzi accertato che fatti identici a quelli contestati fossero stati più volte commessi da questi in passato, ritenendo tuttavia difettare la proporzione tra i fatti contestati e la massima sanzione, opinando che essi fossero da imputare a “scherzi” compiuti soprattutto nei confronti dell’addetta ai controlli, evidenziando inoltre che tale comportamento non rientrava in alcuna delle ipotesi previste dal Ccnl quali causa di licenziamento».
La stessa decisione, secondo i giudici, ha da una parte accertato che, anche per il notevole prolungarsi della condotta, questa «non può che qualificarsi come un grave inadempimento degli obblighi di diligenza e correttezza gravanti sul lavoratore subordinato; d’altro canto ha, però, escluso la legittimità della massima sanzione, qualificando i fatti come un presunto gioco o scherzo perpetrato nei confronti dell’addetta ai controlli».
I giudici del Palazzaccio, al contrario di quanto ritenuto dalla corte di secondo grado, ha considerato l’ipotesi di danneggiamento volontario al materiale dell’azienda che, come previsto dal contratto nazionale, legittima il licenziamento. Comportamento che risulta poter concretare «anche quel grave nocumento morale o materiale per l’azienda, pacificamente previsto dall’articolo 10 del contratto nazionale quale giusta causa di licenziamento».