Con un corpus di numerose opere inedite, Luca Vernizzi espone alla galleria VS Arte di Vincenzo Panza e Samantha Ceccardi dal 5 maggio al 3 giugno con la personale “Spazio e solitudine”, a cura di Chiara Gatti.
A pochi mesi di distanza dalla mostra allestita lo scorso autunno alla Triennale di Milano, l’artista torna con un nuovo percorso dedicato al tema dell’oggetto dipinto.
Fra l’iconografia classica della natura morta e la rilettura in chiave concettuale dell’immagine, spicca una selezione di quaranta opere realizzate dal 1993 al 2017, di cui circa venti lavori recenti accanto a un interessante nucleo di carte, disegni, studi preparatori e schizzi in cui l’oggetto rappresenta l’alibi per una indagine sullo spazio che ruota intorno.
Costruttore di forme uniche, maestro della sintesi e della linea pura che incornicia ogni elemento con geometrico rigore, memore della lezione di Cézanne, Vernizzi guarda alla realtà in cerca di una regola che disciplina il visibile; un sistema cartesiano, uno schema metrico, una griglia impalpabile su cui costellazioni di mele o pesche si posizionano come astri in una galassia domestica.
Lo sguardo alla vita feriale, all’esistenza quotidiana; le allusioni alla sospensione del tempo nelle stanze della memoria, sono macro-temi che coronano la sua necessità primaria di dare ordine e valore alla forma pura. Ogni “prelievo” rubato agli scaffali di una cucina, alle mensole di un sottoscala, è proiettato in una dimensione assoluta. Scatole di cartone, ombrelli, sedie, panni, camicie diventano presenze astratte, ritagliate nello spazio vuoto, rarefatto, abbacinante di una tela o di una tavola bianca.
Chiara Gatti commenta: “La sintassi della composizione è dominata da corpi iconici, mai didascalici, mai narrativi. Vernizzi non insegue il racconto. Ma l’essenza delle cose nella loro eterna solitudine. E ragiona sui meccanismi della visione, sulla natura dello sguardo che vaga in lontananza, affonda in profondità; riflette sul respiro ampio, sull’aria che gira attorno alla materia. Ha bisogno di quest’aria nel suo procedere algido, come se il peso dell’oggetto, la sua presenza fisica, acuisse la propria statura in proporzione allo spazio e al silenzio che lo avvolge. Più spazio, più solennità“.
In questo si percepisce l’eredità della pittura metafisica italiana, sposata a un certo culto dell’oggetto stesso, che fa pensare alla pop art inglese, ai tavoli o alle sedie di David Hockney (Giovanni Testori ha parlato anche di Peter Blake) cui lo avvicinano altresì i ritratti, alcuni esposti in mostra. Condotti con lo stesso lessico rigoroso degli oggetti, sono universi paralleli, entità sospese nell’attesa, figure ipnotiche e isolate nella loro solitudine.