Six feet under è una serie tv trasmessa negli Stati Uniti dal 2001 al 2005, per cinque stagioni. Su Imdb, è stata votata da circa centomila persone e il suo voto medio è di 8,7, un voto altissimo che le dà dignità di serie cult, anche se l’esiguità del campione la definisce come prodotto di nicchia. Il creatore di Six feet under è quel Alan Ball vincitore del premio Oscar per la sceneggiatura di American Beauty. Ambientata nella periferia di Los Angeles, la serie narra le vicende esistenziali di una famiglia d’impresari funebri, molto esperti nell’arte della preparazione dei cadaveri per l’esposizione durante la cerimonia d’addio, tanto cara agli americani.
I Fisher vivono in una casa annessa all’impresa, in cui la lavorazione dei cadaveri avviene nel seminterrato della casa, le cerimonie si svolgono a due passi dalla cucina e l’odore della formaldeide impregna di sé tutto lo spazio vitale. In pratica, i Fisher vivono della morte e con essa dividono luoghi e tempi, intrattenendo un dialogo costante con i defunti, proposto in chiave surrealista, che è la trasposizione del monologo interno.
Coraggiosa la scelta di Alan Ball di dedicare una serie in cinque stagioni al convitato di pietra dei nostri tempi, sfidando l’omertà che solitamente gli viene riservata, tutti sanno che la morte ci aspetta al varco, ma nessuno ne parla. Recensire questa serie è altrettanto difficile, non solo e non tanto per la delicatezza del tema, ma per il timore di non saper trovare parole altrettanto dolci e giuste come lo è la narrazione per immagini e di sciuparla. La testa, i ragionamenti, le analisi sono costantemente minacciati dalla forza delle emozioni che irrompono nel processo di verbalizzazione, perché i Fisher siamo tutti noi, chiamati allo stesso viaggio e allo stesso destino.
Come loro, viviamo le prevedibili contingenze che la vita non risparmia a nessuno, nel bene e nel male, agitati costantemente da una domanda di senso a cui non possiamo che essere sordi, poiché la nostra condizione di moderni, nel suo radicale razionalismo integralista, ci ha condannati a non trovare una spiegazione che sia razionalmente convincente e, al tempo stesso, risponda al nostro bisogno, ineluttabile, di essere eterni.
“Questa integrazione delle realtà delle situazioni marginali nella realtà dominante della vita quotidiana è molto importante, perché queste situazioni costituiscono la minaccia più grave all’esistenza scontata e abitudinaria dell’uomo. (…) C’è un pensiero sempre pronto ad insinuarsi, il pensiero insano per eccellenza, che forse la realtà sgargiante della vita di tutti i giorni è solo un’illusione, destinata da un momento all’altro a essere inghiottita dagli incubi spaventosi dell’altra realtà, quella notturna.” (Berger e Luckmann – La realtà come costruzione sociale).
E’ in quella dimensione che appare la paura di morire, della decomposizione del corpo, che gli americani camuffano con l’esposizione “in bella vista”, come si farebbe con un maialino al forno con tanto di limone in bocca ed ombrellini di carta; di quel corpo con cui abbiamo riconosciuto e definito noi stessi e con cui abbiamo amato, sofferto, goduto, giocato, sentito per tutta la nostra vita. Soprattutto, paura che la morte seppellisca, sei piedi sotto la terra, tutto quello che è stata la nostra vita, che essa non abbia alcun significato e che di ogni gesto, di ogni pensiero, di ogni lacrima come di ogni gioia, di ogni incontro, si perda ogni traccia nell’assoluto del Nulla.
L’abbattimento progressivo di ogni forma di limite, tipica del tempo che viviamo, trova un ostacolo insormontabile solo in quella realtà minacciosa e ultima che è la Morte, sottratta alla dimensione simbolica che da sempre ne aveva neutralizzato la pericolosità, dandole una collocazione rassicurante nel nostro universo individuale e sociale, ed essa contraddice il nostro senso di espansione illimitata, rimanendo a costante monito dell’insensatezza del Tutto. “E’ nella legittimazione della morte che la potenza trascendente degli universi simbolici si mostra più chiaramente, e le legittimazioni supreme della realtà dominante della vita quotidiana rivelano la loro funzione fondamentale di lenire la paura.” (Berger e Luckmann – La realtà come costruzione sociale) Di produrre questa necessaria legittimazione, il nostro mondo si è, serenamente, dimenticato.
Per questa ragione, le infinite paturnie dei Fisher, che ce li rendono odiosi quanto amabili a giorni alterni, ci scatenano, alla fin della fiera, un sentimento dominante su tutti, la tenerezza, la stessa che, forse, non riusciamo a riservare a noi stessi. Quando arriviamo ai sette minuti del finale che, a ragione, è stato definito il più doloroso della storia della televisione, siamo già cotti a puntino, ma non si tratta solo di dolore, quanto di struggimento, come se sentissimo chiaro e forte che ci sono attimi ed atti che hanno il sapore dell’Assoluto, e, dunque, non è possibile che noi si sia alla mercé della “vanità delle vanità”, come direbbe Qoelet. E’ di questa certezza perduta che sentiamo la mancanza. Claire, la più giovane dei Fisher, compie il viaggio del Tempo, dal Passato verso il Futuro, per giungere sul suo letto di morte ormai più che centenne e lasciare questo mondo in totale solitudine, avendo visto morire tutti i suoi affetti.
Il dialogo chiave di tutta la serie è quello tra David Fisher, eternamente infelice e lagnoso, e suo padre, già morto:
P. “Tu, fortunato bastardo, tu sei vivo! Cos’è un piccolo dolore, comparato a questo?”
D.“Non può essere così semplice…”.
P. “E se lo fosse?”
Ma c’è un solo modo per essere vivi e per essere semplici, stare nel Presente, ed è questo che la nostra cultura non ha previsto né per Claire, né per tutti noi.