Stando al rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ‘Society at a glance’, nei Paesi Ocse ci sono circa 40 milioni di Neet, ovvero 40 milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni non impegnati né nello studio, né nel lavoro, né nella formazione.
È qui, in questa fascia della popolazione, che si sono fatti sentire i più alti danni causati dalla crisi economica del 2008, ed è qui che gli effetti più deleteri faticano a diminuire. Come ha infatti sottolineato Carola Adami, fondatrice e CEO della società di selezione del personale di Milano Adami & Associati, «in Italia è soprattutto tra i nativi digitali che le problematiche legate al mercato del lavoro permangono pressoché invariate».
I dati parlano del resto chiaro: il nostro Paese è l’unico tra i principali paesi dell’area Ocse ad essere caratterizzato da una percentuale di occupati maggiore nella fascia d’età onnicomprensiva 15-64 rispetto alla fascia di età tra i 25 e i 29 anni. «I giovani che si sono ritrovati per la prima volta a tu per tu con il mondo del lavoro proprio negli anni peggiori della crisi sono gli stessi che ancora oggi stanno incontrando le maggiori difficoltà» ha spiegato Carola Adami. Stando ai dati del rapporto Young Workers Index di PricewaterhouseCoopers, in Italia il 35% dei giovani tra i 20 e i 24 anni non studia, non lavora e non sta effettuando stage.
Ma se l’alta percentuale di Neet italiani è certamente il sintomo più forte della crisi occupazionale tutt’altro che scomparsa, va anche sottolineato che nemmeno per quei Millennials che hanno avuto più fortuna nei processi di ricerca del personale la vita è tutta rose fiori: nella maggior parte dei casi, infatti, i giovani lavoratori si ritrovano ad avere a che fare con un’accentuata precarietà.
Se infatti nel 2015 ‘solo’ il 14% della popolazione attiva tra i 15 e 64 anni vantava un contratto a tempo determinato, questa percentuale veniva moltiplicata guardando ai soli giovani tra i 15 e i 24 anni. In questo caso, infatti, si parlava del 57% di contratti determinati.
«Di certo la precarietà giovanile non è figlia della sola crisi economica 2008» ha spiegato Carola Adami «in quanto è fin dal 2003, ovvero dalla legge Biagi sulla collaborazione coordinata e continuativa, che i contratti di carattere temporaneo vanno per la maggiore tra i lavoratori più giovani».
I Neet italiani, già prima della crisi, rappresentavano infatti il 20% della popolazione di età compresa tra i 15 e i 29 anni: nel 2014, dopo 6 anni di crisi, questa percentuale si è alzata fino al 27.5%. Rimane dunque dura la vita dei Millennials in Italia.
Anche perché, come sottolinea Carola Adami, «spesso i Millennials che riescono finalmente ad entrare nel mercato del lavoro e quindi abbracciano l’agognata posizione in azienda si scontrano con delle realtà non preparate ad accogliere questa nuova generazione, la quale riconosce nella crescita personale e nei risultati le proprie spinte principali, ben più importanti a loro vedere dell’aspetto economico». E chi lavora quotidianamente nel campo della ricerca e selezione del personale nota ormai costantemente che «una parte significativa delle organizzazioni italiane non è assolutamente pronta ad interagire con unagenerazione di lavoratori così differente da quelle precedenti».
I nativi digitali inseriti in azienda finiscono così talvolta per mettere in difficoltà i manager e i dirigenti, che non sono più solo ‘capi’ agli occhi dei giovani, ma anche e soprattutto formatori: il problema, però, è che queste figure senior non hanno la medesima attitudine alla formazione e al training che accomuna invece i Millennials.
«Per i Neet, per i precari e sì, anche per i giovani occupati, dunque, il mercato del lavoro globale e specificatamente italiano presenta un vero mare di ostacoli e di criticità: i dirigenti aziendali, da parte loro, dovrebbero partire dall’attribuire una maggiore importanza alla formazione continua all’interno dell’azienda» conclude Carola Adami.