Solidarietà sociale anzichè tagli: la soluzione alla finanza speculativa
La crisi greca che da qualche mese assilla i vertici degli organismi di controllo dell’economia europea è solo la più vicina, cronologicamente e geograficamente, di una lunga serie di crisi moderne, tutte caratterizzate da una connessione più o meno stretta con i mercati finanziari e le loro speculazioni. Naturalmente tali crisi hanno assunto aspetti fenomenici differenti in relazione al contesto: la “primavera araba” che ha infiammato i paesi del medioriente prende le mosse da una crisi di sussistenza che perdura da ormai alcuni anni e che ha origine, tanto per cambiare, nelle speculazioni finanziarie sulle materie prime.
Non c’è dubbio che la prossimità geografica della Grecia, alla quale gli italiani sono legati anche da una curiosa storia di amore e odio e da una notevole vicinanza empatica, nonché la responsabilità più o meno diretta ed evidente di alcuni grandi paesi europei nel determinarsi del colossale debito greco, giustifichino il ricorrere nei telegiornali di immagini di guerriglia a piazza Sintagma, sede ateniese del governo ellenico. Sono state annunciate, e in qualche misura – minima – attuate, riforme strutturali che demoliscono uno stato sociale fra i più generosi dell’Europa meridionale e i salari dei numerosissimi dipendenti pubblici sono già stati fortemente decurtati. Dopo l’ingresso nell’area euro, la Grecia ha avviato una costosissima politica di realizzazione delle infrastrutture delle quali era carente e ha aumentato salari e pensioni fino a superare la media di quelli italiani, senza che tali misure fossero sostenute da una produzione consentanea. Tali dati giustificherebbero la violenza degli scontri e la disperata risolutezza dei manifestanti che suggeriscono uno stato di guerra e di catastrofe sociale.
Chiunque abbia la ventura di visitare una qualunque delle città , eccezion fatta per Atene, o delle isole greche, però, difficilmente percepirà di essere in un paese strangolato da una crisi finanziaria. I numerosissimi bar e ristoranti, infatti, sono sempre affollati, fin dalle prime ore del mattino, e i negozi, il cui numero è spesso non commisurato all’esiguità della popolazione, continuano a esporre e vendere. Si badi bene, il discorso non vale solo per le mete del grande turismo (che, forse, paradossalmente, sono leggermente penalizzate dalla crisi degli altri paesi) ma soprattutto per quelle località del Peloponneso centrale che non ospitano forti attrattori turistici. In altre parole esistono due paesi: uno, che si compendia nella capitale, in crisi e in drammatica sofferenza, vede sgretolarsi l’unico canale di sussistenza a disposizione; l’altro, che raccoglie il resto di un paese vasto e poco popolato, sembra non risentire di alcun tipo di difficoltà e attingere a canali differenti, non inficiati dalla congiuntura.
La crisi, quindi, esiste solo ad Atene. Atene è una città immensa e affollata: degli 11 milioni di greci circa sei e mezzo vivono nella capitale; è una città piena degli uffici (e dei dipendenti) di un’amministrazione pubblica titanica, per un paese così piccolo; è una città che non ha più nessun rapporto di sostenibilità con il territorio, essendo un susseguirsi, senza soluzione di continuità , di case, negozi, grandi magazzini e uffici, senza attività produttive di sorta. Atene è, insomma, una testa gigantesca e mostruosa che grava, ciondolante, su un corpo esile ma robusto.
La ricchezza delle altre città e delle isole, invece, risiede principalmente in due risorse: La forza e l’energia del settore primario e, più in generale, delle attività produttive del territorio; e la solidità dei vincoli di solidarietà e di mutua assistenza fra i cittadini.
É soprattutto quest’ultima la soluzione alla crisi, come ha dimostrato il caso argentino. Fra la fine degli anni Novanta e il 2002-2003, l’Argentina è stata travolta da una devastante crisi del debito, una crisi antica e con strascichi violentissimi anche nel resto del mondo. La risposta degli argentini, improvvisamente privati di tutto, fu la ricostruzione immediata di un’economia alternativa, fondata sulla reciprocità dello scambio e dell’assistenza. Nacquero i club de trueque, un sistema attraverso il quale i cittadini si scambiavano beni e servizi senza passaggi di denaro, una sorta di baratto. A questi circuiti si affiancarono e si sovrapposero le fabricas recuperadas, cooperative di operai e piccoli produttori che si consorziavano per recuperare strutture produttive dismesse e avviare produzioni artigianali e industriali con una vocazione etica ed egualitaria. In Brasile queste esperienze hanno dato vita a un sistema che, di fatto, sta sostenendo la crescita del paese, evitando che il benessere attraversi i ceti più umili senza coinvolgerli e finisca con lo stritolarli, come capita sovente a paesi poveri protagonisti di crescite vertiginose di PIL. Il modello brasiliano è caratterizzato da una rete costituita da cellule di produttori e cellule di consumatori. Ciascuna cellula può essere produttrice di un bene o un servizio e consumatrice di altri; le cellule sono in relazione fra di loro e si scambiano prodotti senza necessitare di scambio di denaro. Questo sistema è stato definito del “Bem-Vivir”, del buon vivere, poiché quanti ne sono coinvolti testimoniano del miglioramento della loro qualità della vita. Inconsapevolmente i greci lontani dalla capitale beneficiano già di questi strumenti che altro non sono che il retaggio di una solida civiltà contadina, una civiltà comunitaria abituata a sostenersi (e di fronte a difficoltà ben maggiori di una crisi finanziaria) con il reciproco sostegno e con il lavoro comunitario. L’esperienza greca è solo l’ulteriore dimostrazione della necessità di sciogliere i vincoli capziosi dell’economia finanziaria per riallacciare quelli virtuosi della solidarietà sociale. Gli strumenti a disposizione sono ormai così numerosi da poter offrire risposte efficaci persino a problemi complessi come la previdenza sociale. In molti paesi europei, peraltro, essi sono già stati in qualche misura avviati: sono a uno stadio ben più che sperimentale, ad esempio, nella solita Scandinavia, ma sono promossi con forza anche in Germania e in molte aree della Francia. Il ritardo che l’Italia ha fatto registrare è sempre più rapidamente eroso dalle esperienze coraggiose di piccoli comuni, come quelli che afferiscono alla Rete dei comuni virtuosi, che promuovono una politica di partecipazione, inclusione e condivisione, coinvolgendo la cittadinanza nelle scelte e incoraggiando reti di produzione e consumo etici e consapevoli.. Sospinta dal fiorire di molte esperienze analoghe nel suo hinterland (a cominciare dal Comune di Cinisello Balsamo), anche Milano ha avviato una serie di attività finalizzate a promuovere la partecipazione dei cittadini e a rinsaldare i legami di mutua assistenza, preceduta, fra le grandi città , da Venezia, promotrice di un interessante progetto, “Cambieresti”, adesso replicato da altri comuni italiani.
Il nodo è che la crisi economica non è un’anomalia del sistema ma una delle sue fasi ineluttabili. Rimanere invischiati nei gorghi degli scambi virtuali significa abbattere le mura e far penetrare il nemico, come hanno fatto i cittadini di Atene. La Grecia, le due teste della Grecia, sono un monito che non deve sfuggire agli osservatori internazionali e men che meno agli italiani, i cui modelli insediativi tradizionali, per fortuna in buona parte sopravvissuti, consentono di riappropriarsi prontamente di un modo antico e virtuoso di “essere al mondo”.
Andrea Caprioli