Perché preferiamo lavorare con un collega piuttosto che con un altro? Da cosa dipende la buona riuscita di una trattativa? La risposta è in due semplici parole “soft skill”, le cosiddette competenze trasversali. Competenze che associate a quelle professionali riescono a fare la differenza. Gli ultimi anni stanno dando all’empatia e al problem solving lo stesso valore della conoscenza di una lingua straniera o di una specializzazione. Il 2020, che ha stravolto anche il modo di lavorare di milioni di persone, quali scenari apre su questo fronte? Lo abbiamo chiesto a Giovanna Mundo, neurolinguista e HR manager, esperta in neuroscienze applicate alla formazione e sviluppo del personale.
Dottoressa Mundo, quanto contano oggi le soft skill?
“Le soft skills rappresentano ormai un asset fondamentale di ogni professione. In passato, la consapevolezza in merito era prevalentemente legata ad un aspetto istintivo. La capacità comunicativa, la propensione alla risoluzione dei problemi, l’abilità negoziale, l’empatia erano considerate qualità personali. Oggi, invece, si guarda a esse come a competenze, come a qualcosa, cioè, che si può imparare e sviluppare. In uno scenario come quello attuale in cui i cambiamenti si susseguono a grande velocità, sviluppare e incrementare il nostro bagaglio di competenze trasversali ci porta ad essere non solo concretamente più preparati ad affrontare i nuovi contesti ma anche più appetibili per il mondo del lavoro. Le soft skill sono indispensabili per contrastare una sorta di invecchiamento cellulare che tecnicamente chiamiamo “obsolescenza delle competenze”.
Metaforicamente, se non aggiorniamo i nostri sistemi di apprendimento, di comunicazione e di interazione rischiamo di non essere più “usabili”. A questo, si collega l’attualissimo concetto di “employability”, traducibile come la “capacità di acquisire e preservare un posto nel mondo del lavoro”. Io preferisco, però, interpretare questo concetto come la capacità di ognuno di noi di valorizzare i nostri talenti, le nostre aspirazioni non smettendo mai di studiare, crescere e sperimentare. Alimentiamo così un circolo virtuoso, anche da un punto di vista neurobiologico, sulla plasticità della nostra mente che, come da recenti scoperte, apprende fino al nostro ultimo istante di vita. Tanto che mi viene da lanciare una “provocazione”: perché più che di soft skill non iniziare a parlare di hard skill comportamentali?“
Quali sono le soft skill più richieste fino all’anno scorso?
“Secondo l’ultima edizione del “Future of Jobs Report” del World Economic Forum, (risalente allo scorso ottobre) le dieci competenze più richieste erano nell’ordine: capacità di risolvere problemi complessi, pensiero critico, creatività, gestione delle persone, coordinamento con gli altri, intelligenza emotiva, capacità di prendere decisioni, orientamento al servizio, negoziazione, flessibilità cognitiva. Una riflessione a parte, merita, secondo me, l’intelligenza emotiva. L’intelligenza emotiva è un aspetto dell’intelligenza legato alla capacità di riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire in modo consapevole le proprie e le altrui emozioni.
Le evoluzioni e le applicazioni dell’intelligenza artificiale, anche nel mondo delle risorse umane, hanno evidenziato la necessità di investire sempre di più sull’intelligenza emotiva. Essere in connessione con le nostre emozioni, ampliare anche il linguaggio delle nostre emozioni ci consente di viverle in modo funzionale, di imparare e di crescere. La neurolinguistica in questo può essere di grande aiuto. Amo spesso ricordare- parafrasando N. Chomsky- che noi formiamo le parole ma le parole formano noi.”
E’ stato calcolato che durante il lockdown circa 8 milioni di lavoratori siano stati in smart working e che per molti di loro questa condizione rappresenta il futuro. In questo quadro, quali soft skill bisogna sviluppare “a distanza”?
“Lo smart working, nato da una necessità più che da strategie aziendali, ha portato una modifica radicale e positiva delle modalità di lavoro e di definizione delle performance, con conseguente possibilità di bilanciare più efficacemente vita lavorativa e vita personale. Tuttavia, se non gestito nella maniera corretta può essere causa di frustrazione, stress, disorientamento, solitudine. Occorre lavorare tutti insieme e in modo sinergico per spostarsi da un contesto di “remote working” a uno reale di “smart working”.
Sicuramente, le soft skills più rilevanti a livello individuale sono: saper gestire sé stessi e il proprio lavoro, il pensiero sistemico, la proattività, la capacità di lavorare in gruppo. A questo si aggiungono due competenze che sono state definite fondamentali nel nuovo Future of Jobs Report per il 2025: la propensione all’apprendimento continuo e l’uso e controllo delle tecnologie. Imparare a disimparare sarà sempre più la competenza a maggior valore competitivo. E torniamo al concetto di “employability”!
Dal punto di vista dei manager aziendali, a mio parere le competenze chiave per gestire al meglio un team da remoto o ibrido sono la remote leadership, l’intelligenza emotiva, la flessibilità, l’innovazione e il crisis management. Non dimentichiamoci di guardare con attenzione anche a spunti derivanti dalla metodologia agile, orientata alle persone e ai risultati.“
Cosa bisogna fare per sviluppare queste soft skill?
“Partiamo da un presupposto: ognuno di noi è ricco di competenze. Immaginate un iceberg: le hard skills sono come la punta dell’iceberg. Sono più facilmente visibili, misurabili e si apprendono con lo studio e con la pratica. Le soft skills, al contrario, rappresentano la parte sommersa dell’iceberg ma anche la più grande. Sono competenze non immediatamente visibili, non sempre oggettivamente misurabili, trasversali a più contesti, che dipendono anche in parte dal background e dalla predisposizione e sicuramente in buona parte dall’allenamento.
Un primo passo è essere consapevoli di quali soft skills padroneggiamo e in quali abbiamo bisogno di crescere e migliorare. Il passo successivo è l’allenamento. Come ci alleniamo? Grazie alla formazione di qualità, all’aiuto di un coach o di un facilitatore. Importante è saper scegliere con cura da chi farci seguire e che l’ambiente di apprendimento sia piacevole, non giudicante e accogliente, aperto all’errore: prezioso alleato di ogni allenamento che si rispetti. Più che il talento innato, l’eccellenza non è una sola azione ma un’abitudine.“
Considerarsi persone in costante evoluzione, pronte a migliorarsi ogni giorno, è, dunque, la chiave del successo.
In copertina foto di Free-Photos da Pixabay