Il tema dell’utopia è tradizionalmente avvolto da un’aura di fascino e nel suo cammino millenario ha sposato scenari filosofici, culturali, politico-sociali e non ultimi tecnologici. Dobbiamo ripercorrere la storia fino al 1516 per risalire alle origini del termine: nel “De optimo statu reipublicae, deque nova insula Utopia” Tommaso Moro utilizza Utopìa per designare il paese perfetto ma immaginario e, in senso più ampio, una società pacifica dove la cultura domina e regola la vita degli uomini.
Nel 1879 invece, lo scrittore Jules Verne, nell’opera “Les 500 millions de la Bégum” , ipotizzava ben due differenti città ideali, strutturate in grado di rispondere ai bisogni del tempo in modo intelligente: mentre per uno dei protagonisti ciò significava ottemperare ad un’utopia sanitaria, per l’altro l’idealità corrispondeva ad una perfetta organizzazione industriale e militare.
Oggi le smart cities, e tutto ciò che è ad esse correlato, sono quantomai sotto i riflettori: la pressione demografica, i grandi flussi migratori, i sempre nuovi processi di aggregazione e ricostruzione identitaria spingono a ripensare l’edilizia laddove diventa sempre più impellente la necessità, da parte di enti governativi, autorità pubbliche, finanziatori, azionisti, ecc. di investire in infrastrutture avanzate, smart grid (trasporti di nuova generazione e mobilità sostenibile), tutela dell’ambiente ed efficienza energetica.
Building, home, security, eGovernement: tutto deve essere smart, in una gestione ottimale di ogni singola risorsa. E ad analizzare “Smart cities: the new frontier for opportunities in lot”, il Rapporto pubblicato da Compass Intelligence, il paradigma delle città intelligenti appare profondamente correlato all’area emergente dell’Internet of Things. Da questa integrazione tecnologica ed economica si prevede che tra 5 anni nascerà un mercato da 1.420 miliardi di dollari.
Abbiamo coinvolto il dott. Domenico Caprioli, ricercatore ed esperto di smart communities, per avere di questa tematica una panoramica più approfondita.
Quali sono i fattori chiave e le attuali sfide che interessano l’attuazione delle Smart Cities?
Si tratta di realizzare un concetto, questo vuol dire che ci sono molte risposte. E anche molti stakeholders (soggetto – o gruppo di soggetti – influente nei confronti di un’iniziativa economica, sia essa un’azienda o un progetto, ndr). I grandi fornitori di servizi risponderanno che servono più infrastrutture, più cablatura wireless e investimenti economici, le amministrazioni diranno che ci vogliono più strumenti legislativi, più autonomia e, naturalmente, più fondi, e così via. Sono tutti aspetti determinanti; credo però che, se consideriamo le Smart Cities città in grado di dialogare con i cittadini e promuoverne il dialogo in senso orizzontale, gli aspetti sociali e culturali siano più rilevanti di quelli tecnologici. In qualche modo questo viene dimostrato proprio da Napoli, una città nella quale non si può certo dire che siano stati fatti investimenti adeguati e che ha patito una certa difficoltà – mettiamola così – da parte delle amministrazioni a tenere il passo con il dibattito internazionale su questi temi, ma nella quale si registrano iniziative straordinarie, molto più che smart. Sono determinate dalle contingenze e, quando diventano sistematiche, passano da “arte di arrangiarsi” a innovazione sociale.
Nella realizzazione delle smart cities entrano in gioco, e spesso in conflitto, diversi attori tra i quali vi sono in primis la comunità, poi gli architetti con i loro intenti, le effettive necessità insite nel contesto urbanistico e sociale, chi finanzia i progetti. Si può auspicare realmente una “città ideale” senza correre il rischio di creare realtà frammentate che di “intelligente” hanno ben poco?
Penso che la frammentazione sia la condizione attuale ed uno dei grandi temi della contemporaneità. Al contempo, la disgregazione è un topos del pensiero conservatore, possiamo riconoscerlo in forme chiarissime anche a noi “moderni” a partire da de Tocqueville in poi. La frammentazione che patiscono attualmente le città è anche più grave di quella che potrebbe produrre il conflitto delle diverse istanze, efficacemente sintetizzato dalla domanda. Le città sono esplose sotto spinte centrifughe di natura economica, sociale, culturale, etnica. A ciò si aggiunga che la pratica del functional zoning, l’abitudine di ripartire i quartieri secondo “vocazioni funzionali” attribuite dall’alto, li ha impoveriti delle funzioni tipiche che ne garantivano la complessità e, quindi, la vitalità. La soluzione, a mio avviso, risiede proprio nell’invertire il punto di vista e nel fare tesoro di questa complessità: smettere di pensare a politiche urbane concepite a livello centrale e poi “distribuite” alle comunità, ma osservare le micro-comunità urbane, vedere come esse affrontano i problemi e fare tesoro delle loro soluzioni. Si scoprirebbe uno straordinario tesoro di intuizioni, buone idee e partecipazione.
Che ruolo hanno le ICT (Information and Communication Technologies) in questi nuovi processi e come possono far fronte alle complessità della città contemporanea con i suoi conflitti?
Fra i molti temi, mi limiterò a citarne due.
Il primo è quello relativo alla conoscenza: la sociometria, la disciplina che studia e misura le relazioni esistenti fra i gruppi, ha per la prima volta la possibilità di un dettaglio analitico straordinario. I nostri cellulari contengono una miniera di dati interessantissimi sui nostri comportamenti, sui bisogni e le aspirazioni, tutti su base individuale, quindi con elevatissimo dettaglio descrittivo.
Il secondo tema è uno degli aspetti che ho più a cuore: le ICT si sono dimostrate molto funzionali nel “coordinare” processi. Io credo che una buona soluzione per le città possa essere costituita dal passare da un approccio organizzativo, dall’alto, a uno coordinativo, nel quale gli attori sociali si mettono in relazione, sviluppandosi autonomamente ma coordinandosi con gli altri soggetti. Farò l’esempio dell’innovazione sociale. Gli innovatori sono individui brillanti che spesso hanno intuizioni che vanno oltre lo scenario previsto e che, magari, generano problemi inattesi perché coinvolgono ambiti nei quali l’innovatore non è competente: le ICT consentono di mettere in comunicazione questo tessuto fertile, integrando competenze che corroborino le buone intenzioni e le intuizioni spontanee, magari rendendole replicabili in altri contesti.