Tutelare il mare e le risorse che custodisce. Sembra essere questo l’attuale imperativo dell’opinione pubblica internazionale in tema di sostenibilità. Lo testimoniano il recente clamore suscitato dal documentario Seaspiracy e iniziative di sensibilizzazione come la Giornata del mare o l’istituzione del Decennio delle Scienze del Mare, indetto dalle Nazioni Unite per sottolineare l’urgenza di intervenire sull’Obiettivo 14 dell’Agenda 2030.
Ma che significato ha la parola sostenibilità in relazione al mare? Davvero per tutelare il più importante serbatoio di biodiversità della terra, l’uomo deve interrompere l’attività di pesca, gli esseri umani smettere di consumare pesce, fonte primaria di proteine intorno alla quale si sono sviluppate nel corso dei millenni tecniche di pesca artigianali, economie costiere, culture e tradizioni gastronomiche?
Secondo Slow Food è necessario fare una distinzione tra la pesca industriale, che risponde alle logiche dell’attuale sistema di produzione, distribuzione e consumo, e la pesca artigianale, che necessariamente nasce e si sviluppa intorno alle comunità locali con un approccio basato sulla conoscenza e il rispetto del mare.
«Esistono diversi esempi in cui i pescatori, il settore pubblico, la società civile e la comunità scientifica si sono uniti per gestire collettivamente le risorse, ma sono modelli che hanno bisogno di essere riconosciuti legalmente e con il necessario supporto economico per non rimanere iniziative meritevoli quanto estemporanee» sottolinea Paula Barbeito, responsabile di Slow Fish, campagna di Slow Food che da 16 anni sensibilizza i cittadini a scegliere di consumare i prodotti ittici in maniera sostenibile, e omonima rete di pescatori che in tutto il mondo lavorano come custodi del mare.
La chiave secondo Slow Food è quindi la co-gestione: alcune forme sono attive da oltre mille anni, altre sono nate solo nell’ultimo decennio. Le Prud’homies del Mediterraneo in Francia sono riconosciute dalla legislazione nazionale (due di esse sono anche un Presidio Slow Food), ma generalmente esiste un vuoto normativo in merito a queste iniziative, a livello sia nazionale sia europeo. Un esempio perfetto di co-gestione moderna è l’area di pesca protetta di Os Miñarzos, in Spagna, che coinvolge oltre 190 pescatori, università e Ong, autorità locali e nazionali nella gestione di un’area di 2000 ettari.
In Italia va in questa direzione l’istituzione della prima Oasi Blu nel mare di Ugento, in Puglia, uno specchio di mare noto ai ricercatori per via delle importanti aree di riproduzione anche a diverse miglia dalla costa e per le praterie di posidonia. Qui la pianificazione delle attività di pesca e i sistemi adottati mirano a favorire la conservazione e la gestione razionale delle risorse biologiche del mare.
La storia dell’Oasi Blu di Ugento nasce oltre 10 anni fa, quando i pescatori, tra cui Vincenzo Bruno, attuale presidente della cooperativa, hanno cominciato a mobilitarsi per difendere la loro area di pesca dall’attività aggressiva delle marinerie più grandi, che praticano lo strascico, e dai pescatori di ricci e datteri di mare: «Faccio il pescatore da una vita e sono alla terza generazione della mia famiglia. Un tempo solo la piccola pesca sfruttava le risorse del mare e si pescava per vivere. Oggi, con le nuove tecniche di pesca e lo sviluppo della società in senso consumistico il pescatore è diventato predatore del mare. Noi a Ugento invece siamo giardinieri del mare: sappiamo esattamente cosa pescare, dove e quando, e questo approccio è ancora più importante oggi perchè con i cambiamenti climatici in atto non può essere un regolamento calato dall’alto la nostra guida. Pensare di tutelare il mare escludendo i pescatori come noi è come voler tutelare la natura escludendo i contadini».
Quella dell’Oasi Blu di Ugento è un’esperienza unica ma facilmente replicabile in altrettante zone di alta valenza naturalistica in cui sia presente una marineria della piccola pesca costiera. «A Ugento siamo partiti da un’iniziativa di autoregolamentazione volontaria dei pescatori che oggi è diventata una legge regionale: un percorso esemplare reso possibile dalla collaborazione con istituzioni locali, ricercatori universitari e il locale gruppo di Slow Food. Un passaggio intermedio infatti è stato il riconoscimento della pesca tradizionale delle secche di Ugento come Presidio Slow Food. In pratica a Ugento abbiamo invertito il paradigma: si tutelano i pescatori per tutelare il mare» sottolinea Marco Dadamo, direttore del Parco Naturale Regionale “Litorale di Ugento” e responsabile dei Presìdi del mare di Slow Food Puglia.
Il modello di co-gestione di Ugento è diventato un esempio da seguire per altre marinerie della piccola pesca pugliesi che hanno già preso contatto con i soggetti pubblici e privati coinvolti nell’Oasi Blu. C’è ancora un ultimo passaggio affinchè il mare di Ugento sia davvero un luogo di tutela: «Adesso la legge regionale deve diventare ordinanza della Capitaneria di porto di Gallipoli, in questo modo anche le marinerie più grandi e i pescatori di datteri e ricci di mare devono rispettare le regole dell’Oasi Blu se non vogliono incorrere in sanzioni» conclude Dadamo.