Dopo 17 mesi di prigionia, Silvia Romano è tornata a casa. Mai ci saremmo aspettati che dopo lunghi mesi di appelli per la sua liberazione, una volta liberata dai sequestratori somali, sarebbe caduta nell’incubo dell’odio sui social. Tra i commenti più benevoli letti un po’ in giro, Silvia Romano sarebbe vittima della sindrome di Stoccolma. Partendo dal presupposto che ciò di cui questa ragazza ha bisogno ora sia un po’ di pace, proviamo a capire insieme cos’è la Sindrome di Stoccolma.
Silvia Romano vittima della sindrome di Stoccolma?
Le persone affette da sindrome di Stoccolma maturano sentimenti positivi e di vicinanza, non di rado anche di innamoramento, per i soggetti che fanno loro del male. Tale atteggiamento si matura in contesti di violenza e schiavitù. Il carceriere tiene in pugno la sua vittima che finisce per cadere in uno stato di completa sudditanza psicologica e a volte anche fisica. Non è raro riscontrarla in coloro che hanno vissuto un’esperienza di abuso o di prigionia soprattutto se giovani o con un carattere poco strutturato. In ogni caso, è bene sottolinearlo, è un meccanismo di difesa che il cervello mette in atto in risposta all’istinto di sopravvivenza. In altre parole, diventare complici del proprio aggressore è una strategia per continuare a vivere.
Il nome sindrome di Stoccolma prende spunto da un episodio accaduto nella capitale svedese, appunto, nell’agosto del 1973. Due malviventi evasi dal carcere, Jan-Erik Olsson di 32 anni e Clark Olofsson di 26, tentarono una rapina in una sede della “Sveriges Kredit Bank” della città. Presero in ostaggio tre donne e un uomo e la prigionia durò sei giorni. Alla fine di quel periodo i rapinatori si arresero e gli impiegati furono liberati senza che fosse stato necessario alcun intervento da parte della polizia e senza alcun atto di forza.
Il caso ebbe un’eco mondiale e, per la prima volta, le vittime del sequestro poterono usufruire anche di un sostegno psicologico. Dai colloqui emerse che le persone sequestrate manifestavano sentimenti positivi verso i loro aguzzini. Provavano gratitudine per la generosità dimostrata nel liberarli. Addirittura al processo le vittime si rifiutarono di testimoniare contro i loro sequestratori che, infatti, furono rilasciati. Il criminologo e psicologo che studiò il caso, Nils Bejerot, denominò questo atteggiamento come Sindrome di Stoccolma.
Come si arriva ad amare il proprio aguzzino
Nonostante non sia classificato come disturbo clinico, per la sindrome di Stoccolma possiamo individuare delle precise fasi di sviluppo:
- Confusione: in questa prima fase, la vittima è smarrita. La paura per quello che le sta accadendo è talmente grande che a volte si attua la negazione, come nell’elaborazione di un lutto. Altre volte ci si rifugia nel sonno.
- Illusione: dopo aver “incassato il colpo” e aver preso coscienza della situazione, ci si aggrappa al pensiero che presto qualcuno verrà a salvarci.
- Delusione: con questa parola vogliamo descrivere il passaggio che avviene nel prigioniero col passare del tempo, quando la liberazione non arriva. L’illusione di essere liberati si sostituisce con la delusione per non essere stati ancora liberati. È in questo momento che avviene il “distacco” dalla realtà esterna e si crea il legame di vicinanza con il proprio aguzzino.
- Impegno: a questo punto, la vittima, in preda a un senso di impotenza rispetto alla sua condizione di prigioniera, si impegna in un’attività che sia fisica o mentale.
- Rassegna del proprio passato: è la fase in cui si ripensa in modo nuovo al proprio vissuto e si compie definitivamente l’avvicinamento all’aggressore. Si abbracciano le sue idee, si capiscono le sue motivazioni. Ora il vero nemico è fuori dalla prigione.
Oltre l’odio e l’ignoranza
Come dicevamo prima, dopo un’esperienza così devastante, una persona meriterebbe di godersi l’affetto dei suoi cari e di quanti hanno solidarizzato con lei e non di doversi difendere dal veleno degli odiatori seriali. Nessuno di noi può sapere cosa Silvia Romano abbia vissuto a causa dei suoi rapitori nei mesi trascorsi e qualunque scelta abbia compiuto riguarda lei e solo lei. Tanto meno parlare di questo atteggiamento ricorrente in chi ha vissuto l’esperienza della prigionia significa dare una giustificazione, bensì aggiungere, con umiltà, un piccolo tassello alle nostre conoscenze. La conoscenza è l’unica arma contro l’odio e l’ignoranza.
Foto di copertina PublicDomainPictures da Pixabay