La domanda che rimbalza nella mente da stamattina è disarmante: si può morire davvero a 17 anni?
La morte cruenta di un ragazzino di soli diciassette anni non può lasciare impassibile nessuno, ma noi non ci vogliamo accodare né al coro dei colpevolisti né a quello degli innocentisti. Vorremmo solo che si accertassero le responsabilità di chi sono e che chi ha sbagliato, chiunque esso sia, paghi.
Sembra la cosa più ovvia e scontata del mondo ma in Italia non è così. Quando accadono cose come quella accaduta al Rione Traiano a Napoli ieri, quasi in maniera automatica, tutto si trasfigura e nel passaggio della notizia in televisione e attraverso il web, i social il fatto da reale diventa immediatamente ‘fiction’.
Quella che dovrebbe essere materia della “nera” da telegiornale diventa, invece, subito materiale e boccone prelibato da talk ‘dursiano’ da ‘pomeriggio rosa shocking’ televisivo. Non esiste più il fatto, non esiste più il ragazzo, il posto di blocco, lo sparo, la morte che arranca famelica una giovane vita. No, esiste la trama e l’ordito del dolore della famiglia, dei parenti, degli amici. Esiste la pantomima degli inviati in strada in collegamenti in diretta in nuguli e capannelli di vocianti e deliranti figuri.
Parte la triturazione continua e costante da social con la costituzione immediata dei guelfi e ghibellini di turno e lo scontrarsi a colpi di improperi e maledizioni al poliziotto, carabiniere, tutore dell’ordine, di qeull’ordine che sembra una specie di disegno fatto con quelle vecchie decalcomanie da cartoleria anacronistica.
Immediatamente schizzano fuori, come caricati a molle, sociologi e psicologi che intessono con l’uncinetto delle teorie preconfezionate il centrino di baggianate dell’humus in cui è vissuto il ragazzo, delle condizioni di precarietà e di stress a cui sono sottoposti coloro che dovrebbero difenderci dai cattivi e che, invece, più sovente di quanto crediamo si sostituiscono a loro e diventano: boia, sceriffi, robocop e tutto quanto fervide fantasie possano concepire.
E’ un carosello, un caleidoscopico avvicendasrsi e rincorrersi di mille e mille voci, foto, immagini, testimonianze. Un canovaccio kafkiano dove tutti i personaggi recitano inconsapevolmente la loro parte che non si sa chi abbia loro assegnato, ma lo fanno.
E Davide? L’unica cosa certa è che la sua vita è finita a diciassette anni a cavalcioni di un motorino trovandosi nel posto sbagliato, al momento sbagliato. Non lo conoscevamo e non crediamo che sia giusto né affannarsi a dire che era un bravo ragazzo (come giustamente fanno amici e parenti) né a sottolineare sue presunte colpe (in tre in motorino, si accompagnava a presunti pregiudicati, alle tre di notte, non si è fermato allo stop dei carabinieri); siamo convinti solo che a 17 anni in un Paese che si ritiene civile non si può e non si deve morire.
I processi, sommari o meno, degli uomini saranno in grado di dire cosa è successo veramente? Riassisteremo per l’ennesima volta alla manichea versione dell’arma e all’altrettanto e speculare versione dei superstiti, questo è certo perchè già sta avvenendo e Davide, chiunque egli fosse davvero, sta per essere ucciso una seconda volta da quegli stessi che non hanno saputo fare altro che assaltare due auto delle forze dell’ordine e da quelli che parlano di colpo partito accidentalmente. Il nome di questo ragazzo si appresta ad andare ad allungare la lista di nomi famosi e meno famosi diventati altrettanti casi irisolti? Napoli come Ferguson?