L’Orestea di Eschilo diventa materia plasmabile da reinventare radicalmente, per affidare ad un narratore monologante il tormento di Oreste, le voci e i corpi di Clitennestra, Egisto e Elettra. Centro del testo è la parola incarnata che genera ogni volta una lingua nuova, dove il dialetto lombardo è solo il polo d’attrazione al quale si legano lingue vive e inventate (francese, spagnolo, inglese, latino).
“…si chiama Gli Incamminati, è una cooperativa che prende il nome da una celebre accademia d’arte del Seicento bolognese. Ma non è il richiamo a quei pittori a interessarci quanto l’indicazione programmatica contenuta nel sostantivo: di uomini in cammino verso la fondazione di una forma teatrale dell’oggi”
Giovanni Testori, 29 ottobre 1983
Nel cammino di una compagnia teatrale – che non ha un “bene culturale” già fissato da difendere, poiché il suo “bene culturale” coincide con il suo stesso dna, e il dna si palesa nel tempo e nel cambiamento – i sacrifici sono sempre belli e luminosi. Nella storia degli Incamminati, come detto, c’è stata una consegna ed è in ordine a quella consegna che i sacrifici hanno acquistato senso, ragionevolezza e bellezza.
“C’è chi si batte per un bene proprio, per un proprio pensiero, per una propria idea – insomma, per una sua proprietà. Il patrimonio degli Incamminati, viceversa, sta tutto in qualcosa che non appartiene loro, in qualcosa che hanno ricevuto in eredità, in qualcosa che viene da lontano. Tutto quello che cercano di dire è qualcosa che hanno a loro volta imparato. Ma proprio questo li rende particolarmente incontrollabili, difficili da addomesticare, poco omologabili. Il loro lavoro non si presenta con i tratti rassicuranti di uno stile definito, di un gusto, di una poetica, ma con quelli – più difficili – di un amore che, per esistere, ha bisogno di un “sì” quotidiano”.
Tratto da Luca Doninelli, ‘Trenta volte Incamminati‘, Communitas, giugno 2011.
Milano in questi anni sta cambiando la propria identità, si sta aprendo al mondo e sta cercando una dimensione metropolitana. In questo dinamismo diventa ancor più interessante il desiderio di confrontarsi con un autore che della ricerca e della contaminazione ha fatto il suo tratto distintivo. Giovanni Testori parte dalla propria identità, dalla propria storia, di cui Milano è sempre stato il centro, per creare commistioni con diversi generi e suoni e porta alla luce una nuova lingua e nuovi suoni, derivati da un dialetto che non si usa più, ma che assorbe i francesismi e i modi di dire che ci rimandano ad un ascolto diverso, profondo, di attesa.
Un solo attore in scena da’ vita a tutti i personaggi, ma continua a fermarsi per far emergere la sua storia, perché solo partendo dalla nostra identità si può far emergere quella altrui. Oreste torna a casa per vendicare il padre Agamennone, ucciso da Clitennestra e dal suo nuovo “ganzo”, Egisto, che ora ne usurpa il trono.Accompagnato dall’amico Pilade, trova ad attenderlo alla tomba di Agamennone la sorella Elettra.
Ancora una volta Testori sposta il contesto della tragedia: dalla reggia degli atridi siamo calati nel cuore della provincia Milanese, suo amato paesaggio natale. Da qui discende una tragedia “un po’ da stalla” – come lo definì lo stesso autore – molto cruenta, ma anche divertente e comica per l’espressività del linguaggio.
L’intreccio è lo stesso della tragedia eschilea fino a virare bruscamente poco dopo la metà: «per questo lo chiamo sdisOre’, perché la negazione si fa totale». Dopo l’assassinio, perde il coraggio e dice «in due mi divisco»: l’eroe quindi rinuncia alla giustizia civile, all’assoluzione di Atena e dei cittadini e mentre la voce di Oreste lentamente sfuma in quella dell’autore, lo spettacolo finisce nella ricerca di una coscienza comune, nell’attesa di un perdono.