Nell’età moderna e contemporanea lo sport e la letteratura hanno sempre avuto uno stretto legame. «La letteratura novecentesca coglie appieno questa realtà e la traduce, attraverso una ricca varietà di stili e di linguaggi, in una complessiva esperienza letteraria che merita di essere valutata sia per il suo valore testimoniale sia in quanto elaborazione artistica che trasmette una rappresentazione pluralistica e pluridimensionale dello sport» (Francesca Petrocchi, Sport e letteratura nella storia. Il genere della letteratura sportiva, in Enciclopedia dello sport, Treccani, 2003).
Poesie e prose dedicate a sportivi, fino a farli diventare dei miti, hanno riempito intere biblioteche in tutto il mondo. Anche la critica del calcio, secondo lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa, «è una formidabile macchina creatrice di miti, una favolosa fonte di irrealtà per la sete di fantasie che hanno le grandi folle». Anche la politica – ovvero qualche politico – ha contribuito ad amare gli idoli sportivi, a tracciare aspetti e lineamenti dello sport. Uno su tutti, Walter Veltroni, che nel 1982 curò il volume Il calcio è una scienza da amare. Trentotto dichiarazioni d’amore al gioco più bello del mondo.
Fernando Acitelli, classe 1957, romano, in La solitudine dell’ala destra (Einaudi, 1998) ci racconta di 185 grandi giocatori che hanno fatto la storia del calcio, ma anche di calciatori sconosciuti che ci hanno accompagnato durante la nostra infanzia e adolescenza; con molti di essi la mia generazione ha fatto “conoscenza” attraverso le figurine Panini. E ce li racconta attraverso ritratti in versi, un canzoniere alla Saba. Si va dai pionieri in mutandoni larghi fino ai più moderni. «Si è trattato di una autentica irruzione nel campo della Poesia. Ho trascorso tutta l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza sui campi di calcio, nei panni del calciatore e del tifoso, e così non è risultato difficile “mettere in versi” quanto avevo osservato, quanto avevo ammirato. Nei libri di poesia pubblicati in precedenza avevo “vagabondato” attraverso i secoli tentando di adagiarmi accanto a quelle figure che sentivo nel cuore: re, principi, papi, armigeri, anatomisti, perdigiorno. In letteratura, a parlare di calcio, ci aveva già pensato Pier Paolo Pasolini; a parte i campetti della periferia, egli, nel romanzo Una vita violenta cita un giocatore della Roma della metà degli anni ’50, Pandolfini. All’epoca non era frequente, né “corretto” trattare il football in letteratura. A Pasolini ho sempre portato grande rispetto anche per queste sue intuizioni».
A proposito di Pasolini, egli ha amato tanto il calcio che ha anche praticato da ragazzo nel ruolo di centrocampista del Casarsa, sua città natale: «Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro […] I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo “Stukas”: ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso. Allora, il Bologna era il Bologna più potente della sua storia: quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni e Andreolo (il re del campo), di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho mai visto niente di più bello degli scambi tra Biavati e Sansone (Reguzzoni è stato un po’ ripreso da Pascutti). Che domeniche allo stadio Comunale!». Nei Saggi sulla letteratura e sull’arte, Vol. II (Meridiani Mondadori, Milano, 1999) si cimenta persino a dare una spiegazione semiologica, filosofica: «Il football è un sistema di segni, cioè un linguaggio. Esso ha tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come termine di confronto, ossia il linguaggio scritto-parlato».
Anche il futurismo marinettiano non manca di avvicinarsi al calcio considerandolo come tensione dinamica, accelerazione della qualità psico-fisica dell’io. Secondo Marinetti l’artista futurista deve amare e praticare lo sport, un sentimento che le avanguardie storiche considerano parte del loro percorso letterario e artistico: Dinamismo di un foot-baller, di Umberto Boccioni, ne è un esempio.
L’amore per il calcio e i suoi idoli non trova confini. Molti poeti oltralpi non hanno mai negato di avere un debole per il calcio e la sua magia. Rafael Alberti in Oda a Platko celebrò l’epopea del portiere ungherese del Barcellona, che nella finale del campionato spagnolo al “Sardinero” tra il Barcellona (campione della Catalogna) e la Real Sociedad diventò famoso, un combattente di altri tempi che evitò la vittoria dei baschi: «Né il mare, / che di fronte a te è saltato senza poterti difendere. / Non la pioggia Non il vento, che era quello che ruggiva di più. / Né il mare, né il vento, Platko, / biondo Platko di sangue, / portiere nella polvere, parafulmine. / Nessuno, nessuno, nessuno. / Camicie blu e bianche, nell’aria. / Camicie reali, / contrarie, contro di te, che volano e strisciano. / Platko, Platko molto lontano, / biondo Platko tagliato, / bruciante tigre nell’erba di un altro paese. / Tu, chiave, Platko, la tua / chiave spezzata , la chiave d’oro caduta prima del portico / d’oro! / Nessuno, nessuno, nessuno, / nessuno è dimenticato, Platko. / Ha voltato le spalle al cielo. / Camicie e granelli blu fiammeggiavano, / spenti senza vento. / Il mare, alzò gli occhi al cielo, si / sdraiò e non disse nulla. / Sanguinamento nelle asole, / sanguinamento per te, Platko, / per te, sangue dell’Ungheria, / senza il tuo sangue, il tuo impulso, la tua fermata, il tuo salto / temeva i distintivi. / Nessuno, Platko, nessuno, / nessuno dimentica…».
Anche il giornale dell’epoca «Sport Cantabria» riportò l’azione clou dell’incontro: «Quando il Real stava abbracciando l’obiettivo catalano, il centravanti Cholin, in una posizione invidiabile, avanzò verso l’obiettivo. Quando il goal sembrava inevitabile, il portiere Platko ha fatto un grande allungamento e si è buttato sul piede del giocatore di San Sebastian contenente il tiro, ma in cambio di ricevere in testa il colpo destinato alla palla. Il calcio è stato brutale, Platko è rimasto scioccato e ha dovuto ritirarsi dal campo per applicare 6 punti nella ferita sanguinante».
Più o meno dello stesso periodo, un’altra ode “calcistica” fu scritta dal poeta russo Nikolaj Zabolockij (1926) ed aveva come soggetto le gesta di un altro celebre portiere Ricardo Zamora del Pedro Montón Puerto, il “Divino” che fece paura al Duce, il portiere che parava anche con i gomiti, l’avambraccio, le cosce, i piedi e con la testa.
Le gesta dei portieri, rimanendo in Italia, ci ricordano la poesia Goal di Umberto Saba, compresa nel ciclo Cinque poesie per il gioco del calcio (1933-1934), dedicata al calcio ma soprattutto alla solitudine eroica e sfortunata del portiere della sua Triestina: «Il portiere caduto alla difesa / ultima vana, contro terra cela / la faccia, a non veder l’amara luce. / Il compagno in ginocchio che l’induce / con parole e con mano, a rilevarsi, / scopre pieni di lacrime i suoi occhi. / La folla – unita ebrezza – per trabocchi / nel campo. Intorno al vincitore stanno, / al suo collo si gettano i fratelli. / Pochi momenti come questo belli, / a quanti l’odio consuma e l’amore, / è dato, sotto il cielo, di vedere. / Presso la rete inviolata il portiere / – l’altro – è rimasto. Ma non la sua anima, / con la persona vi è rimasta sola. / La sua gioia si fa una capriola, / si fa baci che manda di lontano. / Della festa – egli dice – anch’io son parte».
Altri poeti, come Alfonso Gatto, con La partita di calcio (1946), una poesia per bambini, traccia il carattere forte e compiaciuto di un portiere di una squadra minore di quartiere: «Boccaccio era il portiere, / il gran portiere giallo / della squadra del quartiere. / Stava all’erta come un gallo // sulla porta del campetto / alla periferia. / Diceva: “Qua sul petto, / ed ogni palla è mia”. // Ma quel giorno, chi lo sa, / sbuca di qua sbuca di là / – Boccaccio attento! – pa pa / la palla è in rete. “Ma va, / ma va, Boccaccio, è uno” / […] / Quattordici palloni / nella rete di Boccaccio / poveretto poveraccio, / bianco come uno straccio / col berretto da fantino / ubriaco senza vino. / […] / Quanti fischi! e poi “cretino”, / “pastafrolla”, posapiano”, / “tappabuchi”, “moscardino!” / Oh, quel povero Boccaccio / nella furia del baccano / si strappava i suoi capelli / e la folla dai cancelli / gli gridava: “Ancora, ancora”…».
Infine, il carattere popolare che è venuto assumendo il calcio fin dagli inizi, già riportato in Gli azzurri e i rossi di Edmondo De Amicis (1897), non è mai piaciuto al potere costituito che lo vorrebbe indirizzare come metafora di un sistema capitalistico: troppi parametri “irregolari” per un controllo della società. Basti leggere un passo dello scrittore uruguaiano Eduardo Galeano: «Per quanto i tecnocrati lo programmino perfino nei minimi dettagli, per quanto i potenti lo manipolino, il calcio continua a voler essere l’arte dell’imprevisto». Ma ancora molto si deve fare affinché il calcio, lo sport in generale, sia il volano per restituire all’umanità valori sani e imprescindibili, come la lotta al razzismo e ad ogni tipo di discriminazioni.