Molti scrittori e poeti durante la loro vita si sono schierati contro le proprie città. I motivi sono vari, l’ignoranza l’ottusità e la stupidità di certe persone, le brutalità architettoniche, una politica culturale quasi assente, l’inospitalità, che inevitabilmente sancisce una fredda accoglienza dei loro concittadini, rafforzando la locuzione latina nemo est propheta in patria: nessuno è profeta nella sua patria. È il caso di uno dei più grandi scrittori del Novecento, l’austriaco Thomas Bernhard (Heerlen, 9 febbraio 1931 – Gmunden, 12 febbraio 1989). Inventore di romanzi di un modo nuovo di fare letteratura, con un rivoluzionato linguaggio, dove rende pubblica quella che definisce la stupidità della popolazione austriaca, Bernhard è figlio di una ragazza-madre che aveva lasciato l’Austria per sottrarsi allo scandalo.
Ancora neonato, viene affidato ai nonni con i quali vive, prima a Vienna, poi a Seekirchen e a Salisburgo, gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Frequenta il liceo classico, che non conclude. A diciotto anni viene ricoverato in sanatorio per un attacco di tubercolosi, dove comincia a scrivere. Pubblica racconti su quotidiani e riviste e, nel 1963, il suo primo romanzo, Gelo, che vince il prestigioso “Premio Brema”. I suoi attacchi alle istituzioni statali e a importanti personaggi politici suscitano e continueranno a suscitare scandalo. A partire dagli anni Settanta si dedica intensamente al teatro scrivendo numerosi testi. Tra le sue opere principali: Perturbamento, Il nipote di Wittgenstein, Il soccombente, Estinzione.
La città presa di mira dallo scrittore austriaco è Salisburgo dove aveva vissuto da bambino subendo un’educazione rigida in un convitto nazionalsocialista durante gli anni scolastici (siamo nel 1943). Città goffa, secondo Bernhard, di vite lubriche, inospitale, avvolta dalla nebbia e circondata da montagne che danno un senso di soffocamento, un odio covato da tempo, da quando si ammalò di tubercolosi per mezzo dell’umidità di cui era invasa il negozio di alimentari dove lavorava, costringendolo ad un lungo periodo in ospedale, che minerà definitivamente la sua salute.
Un odio che traspare senza barriere in Autobiografia, una raccolta di cinque volumi (L’origine; La cantina; Il respiro; Il freddo; Un bambino): «Non è un caso che l’Autobiografia – la quale non procede in ordine cronologico – prenda le mosse proprio dall’ex convitto nazionalsocialista (poi cattolico) in cui il piccolo Thomas si ritrova ad affrontare le prime spaventose prove di sopravvivenza. Un crocifisso che non ha nulla di evangelico e molto di cupamente confessionale sostituisce a un certo punto sulle pareti del convitto il ritratto di Adolf Hitler che c’era stato fino a poco tempo prima, ed è questo avvicendamento a segnare un passaggio fondamentale, dentro e fuori la letteratura. La tragicomica Cacania del grande scrittore austriaco di inizio Novecento – Robert Musil – non esiste più; al suo posto un mondo (l’Austria per il tutto) in cui l’uscita dalle due guerre mondiali non è che un passaggio di consegne tra poteri; la pace come una prosecuzione su altri piani di ciò che ottusità, follia, cupidigia e crudeltà (immutate, forse eterne) hanno fatto da insostituibile alimento […] Thomas Bernhard non ha fatto per tutta la vita che meritarsi la propria antiaustriacità, strappando un respiro dopo l’altro il biglietto che non semplicemente gli consente di prendersi la libertà persino dell’offesa (“siamo austriaci, siamo apatici, siamo la vita come volgare disinteresse alla vita”) ma – visto che nella sua letteratura non ci sono che impegni da onorare – lo obbliga persino a questo pur di restare all’altezza delle proprie ammaccature» (Nicola Lagioia, L’infanzia di Thomas Bernhard,in “Lo Straniero”, n. 140, febbraio 2012).