Dopo le interviste ai poeti residenti in Campania, riprendiamo il discorso delle interviste rivolgendo le domande – le stesse per tutti – ai direttori di riviste non solo con sede in Campania. Oggi intervistiamo Carlo Alberto Sitta, direttore di «Steve», rivista cartacea con redazione a Modena.
Incominciamo con una domanda semplice e forse scontata, ma che ci serve per inoltrarci in questa intervista. Chi è Carlo Alberto Sitta?
Un incrocio di linee divergenti che s’incontrano in un punto mobile.
Come e quando è nata «Steve», come si caratterizza e che linea editoriale presenta ai suoi lettori?
«Steve» nasce dal Laboratorio di Poesia di Modena nel 1980 al termine della mia esperienza al Mulino di Bazzano. Il Laboratorio è l’idea e la pratica, la rivista un braccio in più. Occorreva un luogo che rappresentasse la libertà di ricerca e di espressione al di fuori delle risacche espressive del Secondo Novecento.
Immagino che si faccia una certa selezione prima di pubblicare testi sulla tua rivista. Con quali parametri vengono effettuate tali scelte e quanto spazio date ai giovani e alla poesia?
Delle poetiche novecentesche sono rimaste le rigidità cadaveriche, in un contesto in cui poeti e artisti di giovane generazione rispettano tutto e non credono in niente. Poi si è persa la memoria di quanto accadeva solo qualche decennio fa. Per cui, fatta salva la qualità, a chi vuole pubblicare su «Steve» chiedo solo due cose: conoscere la rivista e verificare la possibilità di fare un tratto di strada insieme.
C’è una redazione e chi sono i componenti e con che ruoli?
C’è un Comitato Editoriale che ha funzioni redazionali. In 40 anni c’è stata molta varietà, accanto a figure stabili. Giusto ricordare i membri scomparsi, Nino Majellaro, Giuliano Mesa, Alberto Cappi. Oggi sono regolarmente presenti Mario Moroni, Mladen Machiedo, Marco Fregni, Fabio De Santis, Antonello Borra, Jean Robaey, Raffaella Terribile. Ma l’elenco dei partecipanti è lunghissimo: solo come traduzioni abbiamo pubblicato da aree linguistiche diverse, americani, croati, israeliani, catalani, francofoni.
A chi è rivolta «Steve» e con quale periodicità?
Si pubblica non per un pubblico anonimo, ma per amici interessati e interessanti. Fra questi stanno entrando anche i collezionisti. La rivista è semestrale, con supplementi senza periodicità.
Seguo da anni la tua rivista apprezzando anche le scelte sulla poesia visuale di cui dai molto risalto. A proposito: come è messa oggi la poesia visuale in Italia?
Abbiamo appena chiuso un numero 54 che presenta una vasta selezione di opere. Dall’America, dove vive, mi ha scritto Mario Moroni: «incredibile come sia cambiata la dimensione visuale, l’uso dei materiali, la concettualizzazione, ecc.». Da notare che oggi per quella operatività c’è una prevalenza di donne, brave e molto determinate.
Vorrei farti la stessa domanda che ho fatto poco fa per la poesia visuale: come è messa oggi la poesia di ricerca, sperimentale, in Italia?
Sono molto legato ai miei modelli novecenteschi, Porta, Rosselli, Spatola, Zanzotto ecc. Mi pare che quel tipo di canone si sia profondamente modificato, mentre le figure storiche stanno scomparendo. Nella nicchia mi pare che la scrittura di ricerca abbia introdotto temi e modi al passo con il mutato clima comunicativo.
Patrizio Peterlini ha da poco pubblicato un’antologia, Rivoluzione a parole. Poesia sperimentale internazionale dal 1946 a oggi, manifesti e testi teorici (ed. Montanari) lungo l’avanguardia dei vari Spatola, Carrega, Dufrêne, Chopin, Lora Totino, Blaine, Fhalström, Heidsieck, Vicinelli, etc.). A proposito: l’avanguardia è morta o ha cambiato pelle?
Se togli pochi carissimi amici, gli artisti classificati da Peterlini sono tutti scomparsi e l’epoca di riferimento è quella che comincia subito dopo la guerra. Da quell’epoca ormai abbiamo tirato fuori tutto: nel 2017 ho pubblicato due libri “gemelli”, come Edizioni del Laboratorio: I GENERI E IL GESTO (raccolta di saggi in gran parte editi nelle riviste degli Anni Sessanta e Settanta); e L’ETÀ DEL GESTO, una mia cronaca degli eventi accaduti tra il 1964 e il 1969, ma scritta oggi.
Cosa bisognerebbe fare per far sì che la poesia ritorni a fare, a dire, a guardare avanti?
Chiaro, per me, che quel clima sia irrepetibile. Non per colpa degli artisti, ma per la mutazione storica, se vuoi il capovolgimento dei valori.
Sono anni che dirigi anche un laboratorio di poesia, in modo autonomo o in relazione alla rivista? E cosa hai proposto negli anni? Attualmente quali progetti ci sono in cantiere?
Ho inventato il Laboratorio in un momento di trapasso: il 1979, quando i mezzi di comunicazione unificavano il mondo e per la poesia non c’erano più le Capitali – l’ultima Capitale era stato il Mulino di Bazzano, ma anche Spatola dovette andarsene da lì. L’idea di Laboratorio, sul modello della bottega rinascimentale, rimane trainante anche rispetto alla rivista. Si fa poesia per esperienza, non per intimismo. Ora, a 40 anni esatti dalla fondazione, il Laboratorio ha un elenco documentato ampio delle iniziative svolte. Nel sito www.labpoesiamo.it c’è solo una parte di quanto realizzato: editoria, convegni, teatro, Biennale Ambiente, conservazione, convenzioni con alcune Università per il tirocinio degli studenti, ecc.
Nel 1977 hai curato un’antologia (Il silenzio, Edizioni del Laboratorio), affermando: «Il silenzio non si può tematizzare». Allora diciamo che «L’invito a rappresentare il silenzio, a tentarne l’impossibile percezione nelle condizioni attuali, provoca uno spaesamento che si dilata fino all’irrealtà»? Vuoi dire che la poesia è irreale e perché?
No, La poesia è realtà. L’Antologia sul silenzio entrava nella sequenza della Biennale Letteratura-Ambiente, per cui la sfida era da un lato contenutistico (l’inquinamento sonoro) dall’altro formale, era la sfida della poesia alla musica e viceversa, da Cage alla Sound Poetry. Irreale è la fruizione di chi resta sulla superficie del suono senza esplorarne la profondità.
Ma che cos’è e come viene rappresentato il silenzio in poesia se – come sostieni – non può prescindere dalla voce?
Il silenzio è rappresentabile togliendo rumore, così come per rappresentare la notte si toglie luce. Togliere significa ridurre, non eliminare. Il silenzio può essere assordante.
È ancora possibile oggi, Spatola docet, una proposta di poesia totale?
In maniera schematica: in teoria sì, in pratica quello che abbiamo realizzato a Fiumalbo “parole sui muri” 1967, cioè la fusione delle arti senza committenti, non è possibile in un mondo dove l’economia ha deciso che questo è il teatro, questo è l’auditorium, questa è la libreria, questa la piazza e le varie arti sono sottomesse al mercato.
Qualcuno azzarda che le riviste letterarie non hanno più motivo di esistere, visto che non ci sono più correnti letterarie e i lettori scarseggiano o al massimo leggono on line. Perché i lettori dovrebbero leggere la tua rivista?
Infatti non la leggono, e se mai l’avessero in mano capirebbero forse meno del dieci per cento. Del resto non cerco lettori senza motivazione, ma persone particolari. In pratica i miei lettori li conosco quasi uno per uno.
Una rivista è in pratica un libro che invoglia a letture totalmente diverse a scritture sul web. Ma siamo nell’era digitale e una miriade di riviste nascono esclusivamente sul web “abbandonando il cartaceo”. Per quale motivo hai scelto di pubblicare una rivista esclusivamente cartacea rinunciando al web?
I materiali pubblicati sul web sono a perdere. Non solo diversità di lettura, ma di conservazione. Uno dei problemi connessi riguarda anche il recupero delle lettere che passano come posta elettronica. Ma io sono legato alla carta.
Le riviste on line sono un’invadenza a ruota libera o un’opportunità anche ai fini economici?
Credo che sia un problema complesso che investe uno dei drammi del nostro tempo, in termini economici non ho elementi per rispondere. Esiti a parte c’è anche, a monte, una diversa progettualità.
Da quando si pubblica «Steve» ci sono stati argomenti che ti hanno fatto esclamare: «Vale la pena proseguire! Vale la pena spenderci il mio tempo!».
Banalmente: l’accumulo delle opere è un dato positivo, che dopo un po’ diventa persino impressionante. Non come in rete, dove la quantità uccide. Come argomento sono molto preso da quello ambientale (dal 1980, non per moda) e sull’opposto versante vale il mio dissenso sullo psicologismo di moda. In pratica i “contenuti” ci sono, basterebbe volerli vedere.
E quelli più interessanti, anche a livello personale?
Ho appena finito di scrivere una ventina di strofe che hanno come titolo “Terra dei fuochi”. Usciranno su «Steve» 55, prima dell’estate.
Che ruolo hanno ‒ secondo te, al di là del tuo condizionamento in qualità di direttore ‒ le riviste letterarie in questo periodo dove si legge poco, diciamo così, per non dire altro, ma apriremmo un discorso troppo lungo?
Il discorso se è riferito alla carta è molto breve: STEVE – ANTEREM – POESIA (Crocetti) sono le più vecchie e credo abbiano tuttora un loro significato. Per fortuna sono anche molto diverse. Limitandomi a quelle, e a altre poche, ho l’impressione che le nuove generazioni restino estranee sia ai modi che ai contenuti.
L’amico Felice Piemontese un giorno mi confessò che non credeva più nelle riviste in quanto ‒ secondo lui ‒ avevano fatto il loro tempo. Io per tutta risposta, ho fondato e diretto due riviste. Si deduce che neanche tu sei d’accordo col pensiero di Piemontese. Perché non sei d’accordo?
Piemontese può avere una sua ragione se guardiamo al panorama internazionale delle riviste dal dopoguerra in poi. Quella fioritura è stato uno dei modelli fondanti di quel globalismo di cui ancora non si parlava. Oggi vale la pena lavorare in un campo diradato. Ma il vero nodo resta un altro: quelle riviste Anni Sessanta erano collegate con la comunicazione, «Marcatrè» o il «Caffè» o il «Quindici» arrivavano, per vie interne, a interessare la grande stampa. Oggi tu puoi fare anche venti riviste, ma la stampa ti ignora.
Quale dovrebbe essere il ruolo di una rivista letteraria in questo “strano” periodo storico e cosa si può fare affinché le riviste tornino ad assumere un ruolo primario nel panorama letterario come avveniva nella seconda metà del Novecento?
Sinteticamente: la rivista letteraria dovrebbe evitare di pubblicare medaglioni, uno accanto all’altro, senza una relazione critica (come fa Crocetti). Da cui deduco che non posso fare proprio nulla, attraverso la letteratura, per contrastare una tendenza che riguarda la macro-economia e non il valore letterario.
L’accusa maggiore che viene rivolta alle riviste è quella di giacere in una specie di “oblio”, un limbo collimato dal contesto in cui opera. La tua rivista come si rapporta con l’ambiente in cui opera, cosa propone ai lettori al di fuori della “pagina”, nel tentativo di realizzare una concreta amplificazione del suo messaggio?
L’ambiente di «Steve» è il mondo, “la nostra patria è il mondo intero”. Cioè una nicchia. Avere riempito anche qualche piazza, negli anni, ci ha consentito di misurare l’effimero della comunicazione. Amplificare il messaggio produce una caduta di stile.
Detto tra noi, a quattr’occhi, quale dovrebbe essere il ruolo di una rivista in relazione al contesto?
Non mi pongo il problema. Quattr’occhi sono già molti, per me, e il contesto proprio non so cosa sia. La Fabbrica? La Scuola? Il Comune? La Regione? L’Unione Europea?
Per concludere: cosa ci proponi col nuovo numero e quando uscirà?
«Steve» 55 è già praticamente fatto. Ho ottimi materiali di Giancarlo Pavanello, Giovanni Fontana, Mario Moroni, Raffella Terribile, Mladen Machiedo, Cesare Viviani, Raffaele Perrotta e altri. Uscita a giugno. E in bocca al lupo a tutti noi che ancora crediamo a queste cose.