Napoli è la capitale del proprio teatro. Nel teatro in via Conte di Ruvo per quasi una settimana, dal 13 al 18 ottobre, si è parlato della necessità di far emergere un cambiamento nel settore dello spettacolo dal vivo. Al centro dei vari dibattiti che hanno visto la discussione spostarsi dalla circuitazione degli spettacoli agli spazi occupati, le nuove misure ministeriali, il progetto C.Re.S.Co. e i meeting degli IETM, dalle nuove forme di produzione alla necessità territoriale napoletana di fare fronte comune per creare un’alternativa al sistema dello spettacolo dal vivo che attualmente è arroccato nelle propria dimensione di potere istituzionale e di mercato – vedi il Teatro Stabile di Napoli, la fondazione Campania dei Festival ed il Circuito Pubblico Campano – e ha un interesse blando nel far “emergere” le generazioni che ormai da anni spingono alle loro porte. Nonostante ciò si continua a dire che “Napoli è la capitale del teatro” contemporaneamente alla chiusura del Teatro Trianon Viviani, del riciclo degli spettacoli del Napoli Teatro Festival, alla limitata circuitazione di spettacoli napoletani fuori da Napoli e di spettacoli non napoletani negli spazzi della città, sembrano non far parte di questo regno.
Più spazio per crescere. Turn Over ha rappresentato una start-up fatta di idee, di confronto per provare ad intraprendere una strada comune per gli operatori del settore. Il rischio è quello di continuare a creare un prodotto culturale autoreferenziale e selettivo, con una Napoli capitale del proprio teatro fatto per il suo uso e autoconsumo, lasciando fuori il referente principale: il pubblico. Quali strategie, quali condizioni lavorative, quali attività posso spingere il pubblico a tornare nelle platee? La risposta maturata da questi incontri è quella di far rete tra spazi ed artisti, dando la possibilità di mettere insieme poetiche e pratiche, tenendo ben presente l’autonomia dei singoli, attraverso la progettualità e la ricerca di nuovi linguaggi e di effettuare microinterventi in stretto rapporto con il territorio. Turn Over ha ospitato tre spettacoli: “L’anima buona di Lucignolo. Nel ventre del pescecane” scritto da Claudio B. Lauri e diretto da Luca Saccoia; “Hamlet Travestie” di Punta Corsara; “Il Contratto” per la regia di Pino Cerbone.
Poter guardare nella testa di Amleto. “Hamlet Travestie” è una dolce metafora. Si parte da Amleto del Shakespeare per giungere alla composizione drammaturgica di Emanuele Valenti – a cui è affidata anche la regia – e Gianni Vastarella che reinventano la tragedia di Amleto, usando una forma irriverente e popolare dichiarata fin da subito con il sottotitolo “da John Poole e Antonio Petito a William Shakespeare”. Non ci troviamo di fronte ad un sottogenere dell’adattamento di un testo letterario, ma dove il dramma di Amleto – il suo essere o non essere – diventa una lotta concreta tra la farsa e la realtà. Da un lato la famiglia Barilotto composta dalla madre (Giuseppina Cervizzi), lo zio (Christian Giroso), la fidanzata (Valeria Pollice) con suo fratello Ciro (Carmine Paternoster) figli di Don Liborio detto o’ Professore (Valenti). Loro si muovono nella dimensione del tangibile della vita, eppure mettono in scena la farsa e non riescono a comprendere la sensibilità di Amleto (Vastarella), frutto della misteriosa scomparsa del padre. Il meccanismo drammatico si regge su questo contrasto e si compie attraverso una visione scenica realizzata con elementi in grado di assemblarsi tra di loro. La farsa fa emergere i contrasti, l’impossibilità di ascoltarsi. Contemporaneamente la poesia ricuce il senso umano della vicenda e del contesto sociale dove viene ambientata la vicenda. Il leitmotiv scelto è la ballata di Peter Sarstedt dal titolo “Where Do You Go To (My Lovely)”. Con i vicoli di Napoli descritti dalla canzone ed un ritornello che dice: Tell me the thoughts that surround you. I want to look inside your head, yes i do. Il lavoro di Punta Corsara conduce lo spettatore dentro la testa la testa di Amleto. Ci accompagna a svelare la commedia, la finzione che lo circonda, con un senso di leggerezza che racchiude nella battuta «’o 47 non arriva a Danimarca». Contemporaneamente allo svelamento della farsa si innesca la tragedia. Il vero fantasma del padre di Amleto gli appare e lo porta a compiere il dovere del personaggio. La vendetta di sangue si compie e resta l’amaro di una vita intrappolata nel proprio ruolo, schiacciata dal peso della storia che si deve compiere.
L’illusione delle relazioni. Geronta Sebezio è personaggio buono, quasi un santone, o è una persona senza scrupoli e privo di qualsiasi morale? Dargli una collocazione netta tra bene e male, buono e cattivo, sarebbe riduttivo. Pino Carbone, regista del “Il Contratto” di Eduardo De Filippo, fa di Geronta, interpretato da Claudio Di Palma, il centro di un vortice, lo strumento per mescolare i pezzi della società e mettere in discussione le relazione tra gli uomini attraverso il suo contratto. I tre atti – come si legge dalle note di regia – vengono strutturati come corpi autonomi di indagine sull’individuo (I atto), gli affetti (II atto) e la la società (III atto). Il gioco metatreatrale si concentra sulla sovrappone dei segni, senza rischiare di confondere e rendere ambigui la struttura dello spettacolo. Tutto è dichiarato, eppure tende verso il simbolico. Quando la famiglia Trocina composta da Anna Carla Broegg, Andrea de Goyzueta, Francesca De Nicolais e Fabio Rossi si ritrova sul cadavere del capofamiglia Gaetano quasi si nutrono della sua scomparsa perché grazie alla sua morte c’è la loro sopravvivenza. Sono pronti a prendere dalle sua carne ciò che serve per sopravvivere. La cattiveria umana viene presa in carico da Geronta Sebezio che rendere probi gli uomo pronti a redimersi in cambio di una seconda possibilità dopo la sua morte. È il caso di Napoleone Botta, interpretato da Giovanni Del Monte, che quando accetterà le condizioni del contratto sarà pronto a cambiare vita. L’opera, oltre al confronto attoriale tra Claudia Di Palma e Francesca De Nicolais che donano un livello di interpretazione elevata, resta fortemente influenzata dalla visione del regista che ben si sviluppa attraverso un percorso personale del testo eduariano e delle scene che sono a cura di Luciano Di Rosa. Ciò viene fuori nell’ultima scena quando Isidoro, Carmine Paternoster, facendo ruotare il gioco delle parti dei personaggi con al centro Geronta, riesce a sviluppare magistralmente la forza visiva e i contenuti del dramma.