Nel suo ultimo libro di poesie, Andare qui (Manni, 2003), Piera Oppezzo (Torino, 1934 – Miazzina, 2009) fa parlare i viventi, li fa pensare, li fa sognare, li fa domandare, fissando nello spazio del vivere quegli strumenti necessari per preservare la materia della vita, i segni di un tracciato rappresentativo di eventi mobili da abitare, nonostante siano ustionati nella mente dal presente impedito dal consumismo sfrenato. O meglio. Il pensiero vorrebbe allungarsi e portarsi al di à del senso ovvio delle cose (e spesso con fatica ci riesce) ma s’impasta nelle fessure dell’attesa a guardarsi intorno, barcollando nell’abitudine del presente che non rivela che somiglianze di andature di esercizi destituiti dell’Essere. Così come il sogno, va avanti per segmenti che rasentano formule di silenzi in corteo, tra degenerazioni di un quotidiano che manca di diversità, anche quando allarga l’orizzonte ai temi politici e al femminismo.
Nonostante fosse autodidatta, giovanissima era già riconosciuta per aver pubblicato nel 1961 le sue prime poesie sulla rivista «La nostra Rai», diretta da Gigi Michelotti e Carlo Cavaglià, e soprattutto stimata, grazie all’avallo di Vincenzo Cardarelli che la pubblicò su «La Fiera Letteraria». Ci aiuta a comprende meglio il mondo poetico di Oppezzo, che non ha prodotto molto in realtà (quattro volumi di poesie, due di prosa e due traduzioni, Jules Renard, Khalil Gibran e Gisèl Freund), Luciano Martinengo (curatore del volume Piera Oppezzo. Una lucida disperazione, Interlinea, 2016), il quale, nel ricordo della poeta torinese ad un anno dalla morte, Per ricordare Piera Oppezzo, pubblicato su «Nazione Indiana» (9 febbraio 2010): «La sua poesia, anzi la sua ricerca di espressione poetica, ha accompagnato in modo spietatamente coerente, l’evolversi della sua vicenda umana. Il suo mondo poetico ne è risultato letteralmente scarnificato, anche se lei affermava che il «poetico è un equivoco che detta sentimenti equivoci»; le sue frasi hanno finito per omettere articoli, aggettivi, punteggiatura e connettivi vari diventando quasi incomprensibili, ad una prima lettura»
Giovanni Raboni, a proposito di L’uomo qui (Einaudi, 1966), prima raccolta poetica della Oppezzo, scrive che «la Oppezzo fa di tutto per metterci sulle tracce di una poesia disadorna e come afona, priva di dimensioni e di colori, una poesia il cui partito preso è quello dell’indifferenza espressiva, dell’appiattimento della parola al suo elementare, irriducibile nucleo gnomico». E lo gnomico e il vivente si assentano tra i detriti dell’umanità, postulando la loro assidua “presenza”, mentre le parole (quando si pronunciano) non domandano e le domande vengono formulate senza attendersi risposte. Quasi uno scenario di “fine umanità” (come non darle ragione!):
Vivente fissa i colori del suo orizzonte.
Scatto. Attesa. Dice di fianco bastava un secondo
Osserva le trame del traffico a convegno permanente.
Ricerca rumori. Abbassa pensieri. Attraversa
Decolla su un serpente illustrato. Esselunga
A suo tempo snodava libellule o piselli?
Spinta dopo spinta un portafoglio. Già aveva.
Vivente ci converte in cronaca cittadina.
[…]
(Vivente e il suo orizzonte, p. 36)
Sono decisi a non mollare, però, a non soccombere, pur nel silenzio, nel disagio di una vita grama, e a niente di proprio sono disposti a rinunciare la parola, il pensiero, il sogno: tra frammenti di realtà quasi rarefatte che i viventi s’affaticano a respirare, ed «… esplodono importanze che non…» sapevano che esistessero. Nonostante lo scenario soccombente. Oppezzo va ricordata anche come organizzatrice, a metà degli anni ’70 organizzò con altre donne il collettivo “Pentole e Fornelli” che portò per l’Italia uno spettacolo di canzoni e testi poetici dove la Oppezzo cantava in coro e recitava poesie. A poco a poco la sua presenza in società divenne sempre più rara che la porta a rincorrere, suo malgrado, un’infelicità che era anche la sua fonte di ispirazione, il suo mistero, «l’espressione basata sui concetti e non sul sentimento». Una vita di solitudine, di sofferta solitudine, come gli ultimi mesi della sua vita, prima di spegnersi, dopo un ricovero in ospedale, in un convalescenziario di Miazzina sul lago Maggiore:
[…]
Dal vivo disastro
che già altre volte ha animato
tra sé e se stessa
fa arretrare l’aridità che l’aveva interrata
Eretica e convinta del suo disaccordo
controlla la vertigine sullo spazio degli assenti.
Il corpo unendosi
allea flussi di presenze. Per loro
avvia un’epoca.
(Pieno giorno, p. 45).