[Gli ultimi giorni di Pompei, 1827-1833 – Museo di S.Pietroburgo]
Il capolavoro di Karl Brjullòv, Gli Ultimi giorni di Pompei, fu un quadro molto impegnativo che richiese quasi 6 anni di duro lavoro. Durante quel periodo, come abbiamo detto negli articoli precedenti, il pittore si dedicò allo studio delle fonti e dei materiali di scavo per rendere la rappresentazione quanto più possibile aderente ai fatti. Per conferire maggior realismo alla scena, il “grande Karl” utilizzò i colori con grande sapienza rendendoli, insieme ai soggetti rappresentati, protagonisti del dipinto. La parte del quadro su cui si concentra immediatamente lo sguardo dell’osservatore, è quella superiore. Il colore inusuale del cielo, che Brjullòv rese con le tinte del rosso e del nero, rende viva la sensazione della furia catastrofica del Vesuvio.
Brjullòv scelse tre colori dominanti e li legò indissolubilmente ai tre protagonisti della scena: rosso per i lapilli che inghiottono il cielo, nero per la cenere, bianco e il giallo per i corpi e i monumenti al centro della scena. Brjullòv aveva puntato sulla selezione di tre colori base che, opportunamente miscelati con altre tinte, avrebbe utilizzato come base per tutto il dipinto. Questi tre colori erano il giallo di cadmio, il rosso di cadmio e la biacca (o bianco di piombo).
La miscela delle tre tinte la notiamo ad esempio per la rappresentazione delle nuvole scure e per la parte degli edifici a ridosso delle due statue in procinto di abbattersi sugli abitanti. Per questi soggetti Brjullòv utilizzò una miscela di ocra bruna e di rosso cadmio medio, mentre per il cielo usò un giallo ottenuto da una miscela di giallo ocra e biacca.
Un altro elemento fondamentale del dipinto, su cui vale la pena soffermarsi per la particolarità della rappresentazione, sono i soggetti. Come abbiamo accennato negli articoli precedenti, si ipotizza che Brjullòv abbia voluto trasporre all’epoca romana una realtà più vicina ai suoi giorni. Questa ipotesi è avvalorata non solo da quello che suggerisce Herzen, ma anche dai personaggi a cui Brjullòv diede voce nel suo dipinto. Infatti, se osserviamo il gruppo di persone alla sinistra del quadro noteremo un personaggio che assomiglia particolarmente al giovane Brjullòv: è il suo autoritratto. Se a questo aggiungiamo che il soggetto in preda al panico porta via la cosa a cui tiene di più, e cioè una cassetta con i pennelli, l’associazione è presto fatta. Stesso discorso vale per la donna che è al suo fianco. La giovane che porta con sé un vaso, è il ritratto della contessa Samajlova di cui Brjullòv si innamorò.
Sempre alla sinistra del quadro, notiamo poi che l’immagine della contessa si sdoppia; Brjullòv ce la ripropone nei panni di una madre abbracciata ai suoi due figli mentre guarda attonita il cielo funesto. Il “grande Karl” conosceva bene quel dettaglio. Alcuni calchi dei corpi in quella posizione, mamme abbracciate ai loro bambini, erano tra il materiale archeologico che aveva studiato. Ancora una volta il “grande Karl” ci dà esempio di grande realismo e voglia di riportare quanto più fedelmente possibile la realtà che aveva colpito il suo immaginario.
Alla destra del dipinto invece, notiamo un’altra scena che Brjullòv cercò di ricreare e che ci riporta a fatti realmente accaduti: la fuga di Plinio Giovane e di sua madre da Miseno durante l’eruzione del Vesuvio. In una lettera che Plinio inviò a Tacito (e che Brjullòv sicuramente lesse), lo scrittore racconta in toni drammatici il momento di panico che colse lui e sua madre: “Allora mia madre a scongiurarmi, ad invitarmi, ad ordinarmi di fuggire in qualsiasi maniera; diceva che io, ancora giovane, ci potevo riuscire, che essa invece, pesante per l’età e per la corporatura avrebbe fatto una bella morte se non fosse stata causa della mia.” Nel dipinto si vede infatti un giovane uomo che cerca di convincere una donna a venir via con lui mentre lei, a terra, stanca e con il volto supplichevole, lo spinge ad allontanarsi da quell’inferno, spingendogli la mano contro il petto per respingerlo.
Infine, al centro del dipinto, Brjullòv mise in risalto, in un’aurea luminosa, una bella donna, riversa al suolo e vittima della natura furiosa. La calca della folla impazzita è ritratta lontana. Nella corsa frenetica alla ricerca di un riparo, nessuno inciampa sul suo corpo, nessuno si accorge di lei, solo il figlio le sta attaccato impaurito. Alcuni studiosi ipotizzano che la donna simboleggi la morte dell’antichità, della sua estetica, della sua cultura e ideologia. E’ un ipotesi affascinante e probabilmente anche molto realistica dal momento che, proprio con le innovazioni apportate a questo dipinto, il “grande Karl“ aveva voluto rappresentare un momento liberatorio per l’artista, di completa espressione della personalità e del proprio sentire, dove a comandare erano nuovi moduli estetici e una forte empatia con le vittime della strage.
Il nostro viaggio alla scoperta di Brjullòv continua.
Buona lettura!
FONTI
– D. Sarab’janov, Arte Russa, Rizzoli, Milano 1990;
– Chudozestvennaja Galereja – Brjullov, n. 72/2006, De Agostini;