Abbrile è ’o mese cchiù cruréle, gnèneta
lilà r’â terra morta, mmescanno
mammoria e desederio, scetanno
ràreche assupite cu ’e cchiòppete ’e primmavera.
Thomas Stearns Eliot, La terra desolata
Nei primi dieci giorni dell’aprile 2016 Napoli ha perso due massimi studiosi della sua preziosa lingua. La scomparsa di Renato de Falco e Carlo Iandolo ha lasciato in giro un vuoto di cultura appassionata e della voglia di comunicare un grande amore per la nostra identità tradizionale col suo carico di suoni e di parole. Due uomini eruditi e generosi. Dallo sguardo che lasciava trasparire il gusto vivo di letture e di curiosità napoletane delle quali sono sempre stati ghiotti.
Sono stati tutti e due tra gli scrittori partenopei pià seguiti, letti e rispettati nella città nostra, in tutta Italia e fuori. Occorre ricordare che le tre cose non stanno sempre assieme. Sono pochi gli autori, infatti, che non rinunciano a dar voce e a scrivere la loro lingua originaria nelle cui sillabe risuona ancora la mitica sirena.
Fino all’ultimo respiro hanno tenuto tutti e due stretta nella mente e nella voce la speranza che il napoletano sia dai suoi cultori tramandato e dai giovani studiato, detto e scritto con la più gran cura. Non c’è migliore eredità dei fari che da secoli fan luce ai nostri giorni, dando un senso pieno alla napoletanità di tutti noi.
Siamo stati in tanti al funerale di Renato, sabato 2 aprile 2016, nella chiesa del Cenacolo al corso Vittorio Emanuele II. Una folla di parenti, amici e, in più, di appassionati veri del napoletano ne ha gremito la navata. Sì, perché Renato amava Napoli come solo si può amare una bella donna dalla voce melodiosa.
Il meglio della propria umanità Renato l’esprimeva nei dialoghi concessi nel suo studio con sul tavolo la macchina da scrivere e i foglietti per gli appunti. Dietro si assiepavano a migliaia volumi di letteratura e storia napoletana e spero vivamente che la moglie e i figli trovino per essi una giusta collocazione.
A quarant’anni abbandonò la carriera universitaria nella facoltà di giurisprudenza per donarsi alla sirena che lo incantò con la sua lingua. E alla parlata di Partenope dedicò tutto sé stesso rendendosene ghiotto amante e grande diffusore. Dalla emittente di un canale televisivo mise in onda una trasmissione ch’ebbe vita in cinquecento puntate e riscaldò i napoletani d’un amore rinnovato per la loro lingua.
Il suo Alfabeto napoletano, a più riprese pubblicato poi dalle edizioni Colonnese, è un testo che si può lèggere anche aperto a caso e in ogni pagina vi si respira l’aria fresca e dolce degli amori giovanili. Le sue proposte etimologiche hanno sempre il garbo dell’amante rispettoso, prive come sono di pretese autoritarie.
Carlo Iandolo l’ho più letto con gran cura che frequentato. Sofferente di problemi al cuore, da ultimo veniva raramente a Napoli dalla sua Pompei e il telefono era il solo testimone delle nostre dispute a proposito degli etimi da lui forniti per alcuni termini e dai quali osavo dissentire. Ne ricordo currivo, nchiaccà, sciù, squitato.
Egli ha sottoposto a un rigoroso esame, nel suo Dizionario etimologico napoletano, pubblicato nel 2004 a Napoli da Cuzzolin, moltissimi dei termini del nostro idioma. Si è spento a 76 anni, il giorno dopo della stampa della sua ultima fatica: “Il dialetto napoletano. Grammatica descrittiva”, anch’esso uscito per i tipi del medesimo editore.
Doveva presentarlo il 23 aprile scorso alla 50&Più in via Toledo 156 che da tempo ospita il “Laboratorio ortografico napoletano” con all’attivo, finora, 15 incontri ben condotti da Nazario Bruno e avente come scopo quello di arrivare a una scrittura concordata. Perché ci sia una lingua e ne sussista tradizione occorre che se ne apprenda la grammatica dandone il sapere e la memoria.
Ripeteva spesso: «Se si conosce la sua origine e si pronuncia al modo giusto, anche un vocabolo poco apprezzato può suonare come una dotta citazione».
Lettere, fonemi e sillabe sono di per sé insignificanti e solo messi assieme fanno nascere un discorso. Le storie di parole sono intrecci di significati e dunque feste della intelligenza.
Le parole del napoletano sono come stelle risplendenti nonostante le si usi da un millennio. Appena le sentiamo pronunciare brillano di luce propria, anche se continuano a morire lentamente. Chi ama Napoli davvero, deve smettere di scriverne la lingua in malo modo o con un lessico slavato. Spetta ai poeti la missione di riaccendere il vigore delle sue parole quando sembrano fiammelle moribonde come àneme pezzente alla ricerca del suffragio del pensiero dei viventi.