(Ma cosa sono queste “Ricerche d’identità”? Semplicemente, si tratta di un tentativo, risultante da alcuni libri o testi disparati ma significativi, in riviste e antologie che abbiamo letto in questi anni, sin dagli anni scolastici e giovanili ‒ in alcuni casi aggiornati da letture più recenti ‒, molto illogico, come la struttura semantica delle postille stesse. Organizzate spesso per frammentazione, per frasi “singole”, cioè con gli accapo dopo ogni punto, in quanto sono essenzialmente sensazioni estemporanee, si propongono di individuare – appunto – lineamenti d’identità con cui riconoscere, per grosse linee, al di là delle dottrine e suggerimenti partigiani, alcuni poeti. Nella composizione degli abbinamenti (tre poeti per volta legati dalla stessa identità, secondo noi), facendo comunque attenzione al fatto di evitare di coinvolgere il lettore nel vortice della confusione, non si è tenuto conto della diversità di stile, di generazioni, di formazione o di notorietà tra gli autori dello stesso gruppo. Ciò che andiamo dicendo ‒ occupandoci anche di quei poeti che hanno prodotto o producono poesie a margine delle loro principali attività di critici, di narratori o di artisti, per cui sono conosciuti ‒, a volte in poche righe e non sempre con un giudizio favorevole, con semplicità e sovente ricorrendo al sostegno di citazioni e lacerti di alcuni critici, creando tra i due concetti ‒ quello nostro e quello del critico citato ‒ un filo logico, un principio di compattezza, un sentimento comune ‒ ma anche una dialettica costruttiva ‒, vuol essere un piccolo orientamento non scientifico sul corpus poetico di alcuni autori, lasciando al lettore, attraverso l’approccio con i testi che chiudono le varie postille, ogni giudizio finale).
* * *
La prima volta che feci la conoscenza letteraria con questo poeta fu alle scuole superiori: in una delle antologie letteraria che ci facevano studiare, c’erano alcune sue poesie.
Quando ne parlai con Moriconi di questo “incontro”, notai in lui una certa soddisfazione che più tardi esternò nella dedica sulla prima pagina di Decreto sui duelli («a Giorgio che mi dovette studiare a scuola e non mi odiò». Luglio 2002), che mi fece recapitare – come vedremo più avanti – tramite Carlo Di Lieto.
Già intravedevo la sua verve ironica.
Ho un ricordo indelebile di Moriconi, soprattutto attraverso le nostre conversazioni telefoniche (ci siamo incontrati di persona poche volte, in qualche serata dedicata alla poesia. Egli arrivava sempre per ultimo, come le grandi star; d’altronde era il decano dei poeti napoletani, quindi come tale veniva accolto dalla platea, con molto rispetto).
Mi diceva che io potevo essere, dopo la sua morte, la persona adatta per divulgare la sua arte: «Sai, potresti incominciare a parlare del bestiario presente nelle mie poesie. Quindi ti farò avere tutte le mie pubblicazioni».
Insomma una specie di ornitologo letterario.
Un giorno mi vidi recapitare a casa da Carlo Di Lieto ciò che mi aveva promesso.
Ce n’era di che occuparsi in fatto di bestiario!
Per es. nella Canzone per la liana del Mato Grosso, che apre Un carico di mercurio (Laterza, 1975), facciamo la conoscenza di animali dal nome in portoghese: il caititu, una varietà di cinghiale; la jibóia, il serpente boa; il jacaré, l’alligatore: il campeiro, il capriolo della prateria; il veado mateiro, piccolo cervo di foresta ([…] il caititu grugna / la jibóa strizza / il jacaré / sgrigna / solca il cerrado lustre / aspre foglie il tenero / corno del veado…).
Ma per vari motivi dovetti abbandonare l’aspirazione di Moriconi: niente bestiario, almeno per ora.
Riuscii solo a buttare giù un breve scritto che rimase inedito e che ora fa parte di questa breve postilla.
Continuando a sfogliare questo volume, leggiamo una poesia dal titolo Ippopotamo (Poi so d’un ippopotamo che / un impala, nel bere, addentato / da un coccodrillo ritrasse / a riva / – fugò lo scaglioso / orrore, la ratta arzilla / maciulla…; dove l’impala è un’antilope, p. 33) che certifica la partecipazione alla realtà da parte di Moriconi.
Per chi non lo conoscesse, Alberto Mario Moriconi era nato a Terni nel 1920, ma sin dall’infanzia visse a Napoli, dove è morto nel 2010.
Svolse attività di penalista, poi docente di letteratura drammatica all’Accademia di Belle Arti e collaboratore letterario di quotidiani e riviste. Per «Il Mattino» di Napoli ha tenuto rubriche culturali, anche con lo pseudonimo di Morick.
Fu soprattutto un poeta (pubblicò Vortici rupi mammole, Gastaldi, 1952; Trittico fraterno, Ceschina, 1955; Anno Mille, Rebellato, 1958); Le torri mobili, Guanda, 1963; La ballata del guano, Ed. Uomini e Idee, 1996; poi in Dibattito su amore, Laterza, 1969; Un carico di mercurio, id., 1975; Decreto sui duelli, id., 1982; Il dente di Wels, Pironti, 1995; Io, Rapagnetta Gabriel e altre sorti, id., 1999), ma pubblicò anche un volume in prosa: Un autocommento (discreto), Liguori, 2003).
«Poesia esplosiva, che attrae il lettore, lo avvince per la piacevolezza e la scorrevolezza della lettura, la ricchezza delle immagini, la musicalità del linguaggio […] ma non si creda che la poesia di Moriconi si esaurisca in questa giocosità.
Al “fondo” di tutto c’è una grande amarezza, il senso della tragedia, della solitudine dell’uomo» (S. Grasso, rec. a Dibattito su amore, in «La Tribuna del Mezzogiorno», 27 gennaio 1970).
Aggiungiamo poesia innovatrice del linguaggio lungo un intenso impegno di denuncia, di cronachismo lirico ma moderno, di citazioni anche dotte, plurilinguismo, allusioni, che interroga da un punto di vista anche di metafisica autocritica e demistificata; il grottesco che diventa anarchico tra tragedie e diversità, relazioni umane, accadimenti per accumulo di materiale verbale; sarcasmo pronto a farsi guidare da uno stile sperimentale da un estremo all’altro del discorso frammentario, «ora allusivo e sfumato, ora gergale e corposo, nell’imprevedibilità di modi sempre geniali, per il sapore, i toni, i richiami, i ritmi. Il lessico stesso [tra significante e significato] è carico di intensità poetica, perciò è provocatorio» (C. Di Biase, in «Corriere di Napoli», 28 settembre 1974).
In Moriconi le assonanze (senza dimenticare la parodia, l’allegoria, l’ironia, le rime interne, epiteti s’impastano con un’affascinante dissacralità che spesso strappa una risata tra tradizione e modernità, personaggi storici e contemporanei per un nuovo genere letterario tutto suo (come ebbe a dire Raffaele La Capria) che ‒ secondo Elio Gioanola ‒ «sfugge a ogni possibilità di inquadramento nel panorama della poesia novecentesca», o come aggiunge Claudio Toscani, «il poeta più originale del nostro Novecento» (queste due espressioni sono tratte dalla descrizione riportata al volume La trilogia tragicomica. Dibattito su amore Un carico di mercurio Decreto sui duelli, a cura di Armando Maglione, sul sito del compianto editore Tullio Pironti).
Dai personaggi del reale e della nostra storia moderna e antica, spesso conflittuali con la realtà in cui sono calati (citando alla rinfusa: la madre di Balzac, i lebbrosi, i filantropi inventori, l’aeronauta Arban, i sensitivi, i nomadi, etc.; Cesare, Garibaldi, Catone e i due Scipioni, mister Brown [alias Giuseppe Mazzini], Vivaldi, Campanella, Marc’Aurelio, etc.), discerne la poesia di Alberto Mario Moriconi: sono personaggi storici “rivisitati”, a suo modo, e presentati come personaggi “nuovi”, ovvero nelle forme e rivoli sconosciuti, dove in primis campeggia la psicologia.
Tra memoria storica e realtà conflittuale, facciamo, quindi, la scoperta di un Belli a double face (ci riferiamo al testo Gioacchino Belli e i ribelli, inserito in Decreto sui duelli, opera moriconiana che chiude la trilogia pubblicata da Laterza, e che prendiamo come riferimento, unitamente a Io, Rapagnetta Gabriel e altre sorti, per questo nostro breve excursus sulla poesia di Moriconi).
Dal ribelle e mangiapapi che era, si ritrova un giorno “ammaestrato” e devoto al potere: «Questo, il Luogotenente, ed il possente / Belli… / Be’… / s’aggrovijò sotto la sottana / de quarche panzanera de curato / quann’arrivò quer macero spretato / che seppe accenne troppa de mattana, / quer cacchio rosso de Mazzini, e vola / la bona pace der, sì, zozzo, ovile, / ma sempre pace, sagramento! E frana / er vecchio monno? Ah sor fischietto, a scola! / ah sor Mazzì, a ’sto monno senz’er titolo / o de Papa o de Re o d’Imperatore / che Cristo ce po’ avé voce in capitolo? / Annate a fa’ la cacca a la sediola: / io ce manno mi’ fijo: l’ho ammojato / pe’ dispenzallo da guardia civile» (A. M. Moriconi, Gioacchino Belli e i ribelli (II), da Decreto sui duelli, op. cit., p. 29).
Il serio e il giocoso, il tragico e il comico, si combinano in una sorta di commistione carica di corpus narrativo-epigrammatico, al limite dell’esopico e dell’epico, quasi escatologico, nel senso di mito terreno più che di sorte del singolo individuo dopo la morte, benché qui pure è interessata in qualche modo: «solo chi non è amato / muore senza dolore: / il solo desolato / ch’ora si aspetta amore. / […] / invidio il desolato / che senza un cane muore / accanto, / e sorride un compianto / al mio schianto d’amore / sognando amore, vita, / all’uscita da questa / sua vita camposanto» (Id., L’eterna rima in ore (il distacco), da Io, Rapagnetta Gabriel e altre sorti, op. cit., p. 57).
Dicevamo all’inizio della conflittualità esistente tra i personaggi della poesia di Moriconi che sperimenta un diverso modo di fare ricerca poetica (ironica e materialmente giocosa, sperimentale, attuale, con il ricorso di una metrica che si avvale anche della tradizione duecentesca), conflittualità sfaccettata e densa di un plurilinguismo di lingue vive e morte (e il francese, lo spagnolo, l’inglese, il portoghese, etc.) frammiste ai gerghi dialettali, spregiudicato e originale, che innesta una contraddizione di fondo, leopardiana: “sregolare” la tradizione e “rivendicare” gli elementi esclusi dalla natura, dalla vita quotidiana.
E il piacere che ne trae dalla contaminatio è indefinito; più forte è la capacità di sovvertire le apparenze o gli errori della storia-natura, tanto più piacevole è affidarsi ai contrari, all’intreccio dell’investigazione.
La poesia di Moriconi si alimenta di drammaticità attraverso la citazione di eventi e personaggi di tutti i luoghi e di tutte le epoche: si tratta di un duplice dramma, colpa di una realtà in contrasto con il poeta e viceversa.
Allora, per ridimensionare una realtà così nefasta e avvilente, il poeta usa le armi dell’ironia e dell’allegoria, non per una poesia stralunata alla Sereni – per intenderci –, ma per preservare proprio quel dramma umano, quella inquietudine che è alla base del fare creativo: altrimenti, sarebbe robetta la poesia.
L’ironia, dunque, è il piacere dell’impossibile che diventa possibile, sembra dirci Moriconi, tra percezione dei sensi e l’abisso, tra il dire e il non dire.
Il gioco dei paradossi, invece, è continua formazione e deformazione della realtà, curioso di possibilità in divenire, con tutti i rischi che ciò comporta, contro cui il poeta schiera il proprio linguaggio alla ricerca delle differenze, delle similitudini tra le parole, quel ruolo primario dell’uomo, le libertà nella catena di montaggio della vita.
Il linguaggio è frazionato, frammentato tra pathos e comicità, tra tensione e inquietudine, senza cui la poesia non avrebbe senso di esistere:
Pesce rondine
S’io fossi turchino
e più corto
sarei quel pesce rondine (celo
due, forse, aluzze vertiginose),
del pari attratto
da coste umane, e da oscuri
venti interni distratto, ritratto.
Né è più
l’età per la mia sete d’alto
mare.
Balzo a tre o quattro
metri sul viscido pelo e per cento
metri anch’io volo:
e il goffo
rituffo, in vista d’un molo
calcinato, in un liquido
letame.
Non ho né squame né ali
turchine,
son tozzo non corto,
pesce gregario sì, e solo,
nel fondo del tossico porto
di Napoli.
(da Decreto sui duelli, op. cit., pp. 98-99)