Renato Casolaro, nasce a Napoli nel 1950, ha pubblicato nel 2015 la sua prima raccolta poetica, “Trent’anni diVersi”, edita dalla Kairós edizioni, a cura di Antonio Spagnuolo, che può essere considerata ad oggi una summa del suo viaggio poetico cominciato negli anni della prima giovinezza.
Già nel titolo il poeta ci annuncia il senso del suo percorso. Come Ungaretti chiamò la sua opera omnia “Una vita”, per farci capire che il verso era per lui la testimonianza lucida e dolorosa della sua esistenza, così Renato Casolaro ci propone come titolo questi trenta anni del suo poetare, ai quali aggiunge un termine polisemico, insieme specificazione e aggettivo, che inserisce nel titolo un’immagine doppia. I suoi anni sono allo stesso tempo fatti di versi e diVersi come i pensieri, le esperienze, la vita che raccontano.
Questa diversità non è la misura di una facile trasgressione, di un riflettore acceso sul proprio esistere; la voce del poeta è sommessa così come l’uomo è riservato, ama i poeti della discrezione come lui, Sbarbaro, Montale, Penna, anch’egli come loro non vuol essere un “poeta laureato” secondo la definizione di Montale. Eppure Casolaro, laureato in Lettere Classiche, possiede una profonda cultura sulla quale si è innestata l’attività di una vita: ha lavorato alla Soprintendenza ai Beni Artistici di Napoli e nella scuola come docente appassionato, ha pubblicato nel 1996 con la IGEI, “Lesbia napoletana, cinquanta carmi di Catullo in napoletano”. Ha commentato vari classici per la casa Editrice Simone, per la quale ha anche curato insieme a Giuseppe Ferraro l’antologia “Poesie al femminile” del 2008.
Nonostante ciò Casolaro sceglie il tono, solo in apparenza dimesso, dei poeti che cantano la vita con dignitosa umiltà. Quella che appare come la semplicità del suo parlare è l’approdo di un linguaggio raffinato, di un lessico sapiente che sceglie però l’immediatezza del dialogo, la metafora mai retorica, in sottili suggestive connessioni col reale.
Il libro, che contiene 40 poesie, è diviso in cinque sezioni: le prime tre definite dal tempo che ne ha scandito la storia personale, “Anni ottanta”, “Anni novanta”, “Anni duemila”; la quarta “Ubi sunt?”, pervasa da domande struggenti e ricordi su coloro che non ci sono più; l’ultima “Viaggio al futuro”, cercando in sé e negli altri una voce significativa che parli al nostro tempo.
Questo libro non è solo un’autobiografia, non è solo un canto dell’Io del poeta, la lirica assume spesso toni di epicità, perché quegli anni che si dipanano davanti a noi sono innestati in una realtà storica e sociale che affiora con decisione tra le pieghe del verso. Nessuna pesantezza nel poetare, una grazia che ricorda Umberto Saba, versi tra l’emozione e l’ironia, giochi con le parole e tra le parole. Così comincia l’itinerario: “Gioca amico alle parole:/ legon-lego-leghi tu/(…) Ritmo, ritmo è la poesia…”, Per poi spingersi alla rievocazione dell’infanzia “… Dove le immagini care/ e la vuota perduta fanciullezza?/(…) Domino ormai quel fondo/ di mare, e il suo meraviglioso/ non m’appartiene più.” La casa paterna rievoca col suo vuoto e silenzio quel “muro tra noi” che “nel più riposto angolo della casa vive ancora (…) Vive in queste dure pareti della vita e della morte.”
In “Mortis immortalitas” il verso d’inizio“Che importa se saprò che sarò morto?” si reitera al finale con una leggera variante “Che importa allora, se saprò d’essere morto?” Sapere la morte, dopo che “Forse qualche bagliore del mattino/ tra le persiane di colore incerto/ mi toglierà lentamente la spina”, con gli occhi socchiusi nella luce del giorno che attenua appena il dolore, per antitesi fa sentire vivo il poeta, anche quando s’insinua nei momenti inquieti di un amore: “(…) Così del nostro amore qualche volta/ (mi perdoni?) non riesco a prevedere/ che una dilatazione ultima immane/ di morte, che al contrarsi porrà fine/ dei nostri cuori unanimi.” Allora setaccia il suo vivere “la sua storia trita” rincorrendo “… la parola che di rado soddisfa, lampo a sera/ mistero che chiarifica d’un fuoco/ e distende l’oscura logorrea...”.
E cerca nei versi di Penna, a cui è dedicata l’ultima poesia della sezione, ” frammenti di versi, come antichi/ papiri fascinosi”, quella stessa luminosa intensità del poetare che già gli appartiene. Vi si guarda come in uno specchio di consolante condivisione: ” ..Io leggo, e più m’appiglio,/ Penna, alle pene tue/ se il vuoto della vita ci assomiglia.”
La sezione “Anni novanta” canta i quarant’anni del poeta, fra bilanci personali e politici; la piccola e la grande Storia si intrecciano, i dialoghi con l’amico scienziato fatti di “scontri inutili e fecondi”, la coscienza di una solitudine che ha cambiato volto: “(…) Ora non basto più a me stesso/ e prima d’invecchiare/ mi attacco alle radici della vita/ e cerco i vecchi amici/ e ne vorrei di nuovi.”
Ne “I funerali di Enrico Berlinguer” il dolore per la morte di un lider amato, i dubbi sull’incerto futuro politico che gli seguirà, lo spingono a misurarsi con una temuta inadeguatezza poetica che al contrario produce versi potenti in grado di saldare in immagini pregnanti il privato e il pubblico di un’epoca: “Ma come liquidarti in pochi versi/ ora che il tuo relitto inerme esposto/non parla e tutti parlano di te?/ Ci rinuncio: chi sono/ io per estrarre un suono/ di vita dal frastuono di una morte?”
Il poeta in questa fase continua a sentire la sua fragilità umana, vuole cantarla, “timidamente, s’intende, quasi in prosa”, vuole raccogliere i suoi cocci, quei frammenti del suo essere che sembrano non avere coesione, “perché qualcuno li sistemi (poi)/ nella cassa da morto”. Anche qui Renato Casolaro offre il suo omaggio ai poeti amati, Sbarbaro e Montale e allo scrittore Guy De Maupassant, riconoscendo in essi il “basso volo” che si attribuisce, ma il canto che si libra sopra le cose cantate è tutt’altro che basso e modesto, diviene uno struggente dialogo d’amore e di pena nel cenacolo di poeti che Casolaro ha evocato intorno a sé. “Versi di Sbarbaro, trucioli-barchette/ in voi trovai perfetta somiglianza/ al volo che fu mio.” ; “Parole di Montale, che ha studiate/ l’intollerante forza di un neofita[…]voi mi dite il dolore universale/ dell’antico poeta sconosciuto in noi[…] (senza fretta il poeta vibra in volo /radente terra, doloroso e solo)”; “ Non riuscisti a vedere il nuovo secolo./ Vedrò io forse l’altro […}a te che non ascolti (ascolteresti/ se fossi in vita?) omaggio faccio a vuoto/ di questi versi che poesia non sono,/ ma raso terra solamente un volo,/quasi elicottero in perlustrazione”.
In “Anni Duemila” troviamo un caleidoscopio di voci, amici, donne, madri, padri e figli, dove il passato e il presente tessono una inestricabile tela. Dentro ci sono avvolti il bambino mite che il poeta è stato, quello incapace di giochi crudeli, incapace di sputare sull’altro, il suo essere amico vero cresciuto nel tempo con cui si può condividere il ricordo e il dolore, e poi quello stesso amico la cui madre ancora parla l’indimenticabile lingua dell’accoglienza e fa specchio a sua madre nel ricordo: “Quando vedo mia madre nell’amica/ madre che dorme lì, serena/ perché voglio che sia serena, perché lo fu mia madre finalmente…allora non dico più all’amico il mio dolore;/ allora non guardo più nell’amico il suo dolore,/ ma passeggio con lui sul corso e/ l’ascolto se mi parla della madre.” Un’altra fase della vita, un altro bilancio, un’altra definizione del sé che le esperienze hanno maturato, nelle poesie “Pot-pourri” e “Curriculum vitae”: “[…] Ho vissuto a metà, ma non mi pento/ perché di tante/ cose ho fatto a metà/ con chi ho incontrato, che nella mia sfera/ ho vissuto più di una vita intera./ Vecchio bambino, cui la vita ha dato/ il tutto il niente e insomma/ quel che si dice il normale,/ ho tra le mani poche/ vittorie da mostrare.”; “[…]Carico di fardelli/ di inesperienze e attese,/ l’ago non è più d’orientamento,/ ma di penetrazione e non prelude/ ad alcuna diagnosi./[…] Se mi numero in anni non li conto,/ se in mesi in giorni in ore/ li perdo senza pietà”.
La sezione conclude con “Padri e figli”, nel dialogo con un amico, un confronto umano e ideologico tra generazioni, quello del poeta con suo padre: “E vagarono al sol dell’avvenire/ tanti che ora non ci sono più: erano i nostri padri, il tuo e il mio,/ chi zitto in casa, chi nella sardana.”
e quello con suo figlio : “E noi, che lasceremo ai nostri figli?/Un po’ di confusione,/ così non ci dovranno nulla più/ e non dovranno prendersi la pena/ d’ucciderci.”
Le ultime due sezioni: “Ubi sunt?” e “Verso il futuro” contengono, la prima sei poesie e la seconda tre. In “Ubi sunt?” il poeta riprende il tema della morte, i suoi morti sono stati presenze importanti della vita e ricordarli significa riallacciare le voci, le sensazioni, le esperienze condivise ma sotto la luce nuova in cui appaiono nel silenzio della loro fatale scomparsa: ”È la vita un disegno/ in cui figure e sfondo si rispondono/ e in cui non puoi sapere/ chi è lo sfondo e chi vita…” Tra quelle morti familiari del quotidiano altre morti illustri come quella di Berlinguer, segnano il passo con cui il poeta ha camminato nel suo impegno sociale e politico. Ne “I funerali di Mandela” in pochi versi Casolaro ci rende partecipi della vita di un uomo che ha segnato la storia del nostro tempo: “Marciano a passo uguale/ divise ed alamari bianchi e nei,/ I colori che amò/ negli anni della prigione e della gloria/ riuscendo a mescolarli senza mai – questo è il miracolo -/ creare il grigio”.
In “Verso il futuro” il poeta di nuovo si interroga, tra il dubbio e la speranza, su come sarà il “Terzo millennio italico”, su come si potrà, dopo i secoli di barbarie che ci hanno preceduto “[…]rinnovarci nella memoria che continua a piangere […] Resta ormai stridula e inascoltata/ la voce di colui che primamente/ conosce il tremolar della marina, (riferimento a un verso dannunziano di “Pastori d’Abruzzo”) […] Con quale voce ormai potrà parlare/ chi ci darà il segnale di partenza?”.
Il poeta vigile, cantore della vita e della morte, evocando “il sol dell’avvenir” aspetta e noi con lui una nuova epifania.