Strana storia quella del referendum costituzionale che il 20 e il 21 settembre prossimi chiamerà gli italiani alle urne per scegliere se tagliare il numero dei deputati in parlamento o lasciarlo invariato. Talvolta ingiustamente considerati figli di un dio minore rispetto alle elezioni politiche, i referendum sono un importante strumento politico che possono decidere il futuro andamento dei governi. In questo caso la scelta per il sì o per il no al referendum vede i partiti politici schierati in uno schema a geometria variabile con fronti quasi trasversali.
Un passo indietro
Il referendum costituzionale, è bene ricordarlo, è stato indetto all’indomani della votazione dell’8 ottobre 2019. In quella giornata era stato approvato definitivamente il testo di legge che prevedeva la riduzione dei parlamentari del 36,5%. L’esito della votazione avrebbe dovuto portare il numero dei deputati da 630 a 400 e quello dei senatori da 315 a 200. Tuttavia, la maggioranza che ha portato a questo risultato era “assoluta”, composta, cioè, dalla metà dei votanti più 1 e non “qualificata”, vale a dire che comprende i due terzi dei votanti. Questo particolare ha permesso ad alcuni parlamentari di prendere più tempo per una riforma così importante ricorrendo allo strumento referendario. La prima data per il referendum era stata fissata per il 29 marzo 2020 ma l’emergenza sanitaria da Covid 19 ha reso necessario lo slittamento fino a settembre.
La scelta del sì e del no al referendum
In questi dieci mesi, infatti, pandemia permettendo, il dibattito sull’utilità del taglio dei parlamentari ha diviso politici e giuristi. Il fronte del sì, guidato dal Movimento 5 Stelle che ne ha fatta una questione di principio, pone le sue basi nel risparmio sulle spese della politica. Il fronte del no, che conta più di 200 costituzionalisti, vede in questa riforma un pericolo per la rappresentatività del Paese a fronte di vantaggi inesistenti. Una variazione di questo genere, di fatto, dovrebbe essere accompagnata da una nuova legge elettorale.
Il gioco delle parti
Poi qualcosa è cambiato e non parliamo della pandemia con i suoi risvolti psicologici. Parliamo di nuove alleanze di governo che hanno completamente ribaltato lo scacchiere politico. Ad eccezione del Movimento 5 Stelle, fisso sulle sue posizioni, i partiti che lo scorso anno erano per il No, oggi si ritrovano, giocoforza a cambiare sponda e le posizioni apparentemente solide in realtà vacillano. Primo fra tutti il PD, che all’epoca, aveva votato No ed era all’opposizione, oggi ha una posizione più mediata: Zingaretti ha confermato il suo Sì pur comprendendo le ragioni del No. La vera novità, però, è la spaccatura che si registrata all’interno delle forze politiche. Si contano ammutinamenti da parte del sindaco di Bergamo Giorgio Gori e del Governatore della Campania Vincenzo De Luca (PD), da parte di Claudio Borghi (Lega). Spaccatura autorizzata invece in Forza Italia e Italia Viva. Silvio Berlusconi non ha ancora reso nota la sua preferenza e ha lasciato libertà di voto ai suoi. Matteo Renzi, dal canto suo, considera la proposta di riforma senza grande importanza e di non propendere né per il Sì né per il No. Tutto rimesso dunque “al buon cuore” degli elettori.