LIII
Io so
che quando la poesia
incontra la carta
sorge solo e soltanto
un’oasi nel deserto,
ma ho necessità
di abbeverarmi
come un cammello
prima di tornare
a piantare alberi
come grane
per sconfinate
distese sabbiose. (p. 63)
Alienità, appartenere ad altra persona, l’essere di proprietà d’altri nel linguaggio giuridico. Il termine deriva da alieno, come si sente Stefano Taccone in una società che non riconosce la sua ars poetica, che non riconosce più l’essere umano come entità individuale. E allora cosa fa il Taccone-poeta? Si crea un mondo tutto suo, abitato tra il sogno e l’inconscio, tra il vero e la vero-somiglianza.
Un titolo mai come ora azzeccato. Ci voleva anche la pandemia a renderci ancora più alienati. Si evoca e si trasforma (quando ci si riesce) la traslazione del senso in corpi evanescenti, si resta a contemplare il proprio limite, ciò che in definitiva non si può spiegare col semplice ragionamento: il come non è il cosa.
A questo punto fregarsene delle posizioni che cadono come foglie secche? Ma i poeti sono inguaribili mentitori, brulichio intenso di voce spalancata, fanno finta di dominare le contraddizioni, ma nessuna poesia ha il privilegio di essere eterna: l’unico principio è quello di reinventare continuamente. Fregarsene dell’effimero che travolge tutto in niente? Ma si lanciano al di là del nomen, nomen innominabili, immobili colate putrifere, putriferando nomenclature. Eppure il linguaggio poetico è un qualcosa che vive formulando un altro linguaggio poetico. Aprirsi a folgoranti immaginazioni, a dilatazioni complesse intertestuali, volutamente impopolari, è il senso della scrittura creativa. Lo sa bene Taccone che le ripetizioni e le somiglianze non riproducono che identità stereotipate, un flusso immemoriale di ceneri soffiate nel silenzio dove le parole sanno di morte e i sorrisi d’incenso. Ma bisogna fare, purtroppo, i conti con l’alienità.
«Si ritrovano nelle poesie di Stefano Taccone molti dei tratti distintivi dei suoi racconti, le tracce, i segni che dissemina lungo un cammino che vuole rendere visibile, riconoscibile nel mare magnum di parole e nella giungla dei sensi e dei tempi che attraversiamo. L’impressione è che Taccone sia un camminatore tenace, uno di quelli che prendono un passo e, sorridendo, passano su rocce e pietre, guadi e dirupi, e procedono» (Ivano Mugnaini, Pref. ad Alienità, p. 5):
XXXIII
Non desiderare
che ai sogni
spuntino le gambe.
Fabbricargliele
muscolo per muscolo
con la finitezza
di un Michelangelo
e la grazia flessuosa
di una danzatrice. (p. 43)
I sogni per Taccone diventano realtà o li vorrebbe far diventare realtà, materia, materiali da opporre a questa vita grama. Ma si diceva procedere dove? Procedere come? Intanto procedere con costanza tra i dettagli di una realtà piena di contraddizioni e falsità che sa ben gestire e celare i propri difetti, le proprie nullità, osannando i grandi eventi che mai realizzerà trascurando trascurando quelle piccole cose vitali su cui si erige il mondo. Le intenzioni, come le idee, corrono nel buio, mentre i viaggi d’un poeta si avviano verso il gran vuoto, con la presunzione di poterlo poi riempire. E dove va il procedere di Taccone? Potremmo interpretarlo come un desiderio di spostarsi e/o allontanarsi dalle paludose negatività del quotidiano, alla ricerca di qualcosa per cui valga la pena spostarsi, ovvero alla ricerca dell’umanità perduta, il senso dell’amore, che è poi il senso della vita («Per te / andare per fiori / è un po’ cercare / te stessa. / Ma il difficile / non è reciderli / per trarne un variopinto / e profumato mazzetto, / bensì amarli / e crescerli con cura / nel tuo vasetto», p. 15).
Poesia semplice ma profonda… che non ha ingerito / il frutto dell’oblio… laddove l’iperrealtà / è pelle che raschia via / ogni nuova stagione… dove ancora una volta prevale il senso contrario delle cose, il rifiuto a ripercorrere se stessi, a ridisegnare una “mappa” invisa ad una dolciastra melassa di sentimentalismo ironizzante. Maurice Blanchot ci dice che «ciò che rifiutiamo non è senza valore ed importanza»; ma per rompere il disincanto di un mondo ipnotizzato da falsi miti, occorre dare alla parola e alle cose distinzioni e fondatezze: le loro effettive competenze, anziché carnevalizzazioni e plurime codificazioni di una koinè arrogante e apparente.
Il procedere di Taccone si tiene lontano dall’oblio, dunque, sostituito dalla fede, per es., da chi può darci la forza di vivere, di riconoscere il senso della vita («Prego / il Salvatore del Mondo / di liberarmi / dai [ falsi] salvatori di questo mondo», p. 56). L’ultima parte di questo volume è basato proprio sulla fede, con la consapevolezza di non riuscire ‒ in quanto umani corrotti ‒ a cambiare il mondo, a lasciare in eredità un granello di sabbia, giacché «Non è più tempo / di attendere il Messia / che cacci i mercanti dal Tempio. // Sappiamo già che lì / non abita più Dio, / ma lo pseudo-pantheon / del nostro tempo» (p. 53) dove azione e ricerca di nuovi moduli vivibili ed abitabili si certificano con disegni criminosi, con nuove suggestioni metafisiche a garanzia della vendita di un prodotto tautologico. Nonostante ciò, riusciamo ancora a credere in qualcosa di “religioso”: «amare lo spirito del mondo – affermava il predicatore tedesco Friedrich Schleiermacher – e contemplarne lietamente l’attività» dove il cuor gentile… ripara amore. Ma tra spirito e sostanza chi ha ragione? Un dualismo che oggi ha perso il suo valore, la religione di Cristo ha subito un mutamento, la metafisica di Cartesio ha subito un mutamento, lo strutturalismo moderno di Barthes ha subito un mutamento, entrambi coinvolti in un processo di sviluppo logico; la natura però è rimasta invariata, si nasce e si muore: le ragioni e i motivi filosofici, sia pure collaterali allo “spirito”, si tende di farli apparire come concetti di conoscenza palese e distinta.
E allora il legame con la vita resta l’amore, non soltanto quello divino ‒ come spesso emerge dai testi di Taccone ‒. «Ma ormai non c’è più Tempio, / se non quello / del nostro corpo, [ed ecco che la scrittura di Taccone diventa materica] / né c’è altra salvezza / che allenarsi a tutto, / come l’Apostolo Paolo, / sperando di trovare / chi ci darà la forza» (ivi). E chi se non la poesia? E cosa può fare la poesia tra questi mercanti? Aprirsi alla storia in senso negativo, inquietante e in modo critico, liberando molteplici movimenti, plurime “verità” nascoste o pronunciate male; parlando dell’ovvio e dell’ottuso; del grado zero della scrittura; del nulla e del dissolvimento del soggetto; del brusio della lingua e della necessità storica e ideologica nella cultura contemporanea, e perché no? guardare un tramonto o ascoltare il canto dei gabbiani.
Dicevamo anche procedere come? «Come accadeva nei racconti di Sogniloqui e in quelli del più recente Morfeologie, Taccone si muove su quella linea di confine tra il vero e il verosimile, tra la dimensione vissuta e quella pensata, non di rado in opposizione al reale. Mai come fuga, mai come mera evasione» (Mugnaini, cit., p. 5):
‒ abitando la zona grigia tra la nevrosi e il sogno;
‒ credendo al poetico come antitesi del politico;
‒ dando fine al capitalismo a darci fine col capitalismo;
‒ ragionando sul fatto che continuiamo a baciare rospi che non diventano mai principi; mentre un angelo di purezza muta in angelo di malinconia.
Tutto ciò con una vena ironica (l’ironia è il corpo della poesia, la contradditorietà la sua anima), tra una condizione esistenziale ai minimi termini e il paradosso di un qualcosa di autentico che scaturisce anche da una giocosità creativa («Si è incantata / la bacchetta magica / che rompeva / il disincanto / del mondo», p. 36), cn funzioni quasi ecologiche («Temo che presto la terra / non possa più sorreggere un tale fardello / allora creperà la crosta / e ci inghiottirà il mantello», p. 37):
XXVII
Sono tre o quattro secoli
che nani e nani saliamo
sulle spalle di giganti
senza mai giungere
a lambire il cielo (ivi).
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Stefano Taccone
Alienità
Edizioni Divinafollia, 2019, pp. 70
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- Stefano Taccone è nato a Napoli, 1981. Vive a Milano per lavoro. È dottorato in Metodi e metodologie della ricerca archeologica e storico-artistica presso l’Università di Salerno. Dal 2013 al 2015 ha insegnato storia dell’arte contemporanea presso la RUFA – Rome University of Fine Arts. Ha pubblicato le monografie Hans Haacke. Il contesto politico come materiale (Plectica, 2010); La contestazione dell’arte. La pratica artistica verso la vita in area campana. Da Giuseppe Desiato agli esordi dell’arte nel sociale (Iod, 2015); La radicalità dell’avanguardia (Ombre Corte, 2017); due volumi di narrativa: Sogniloqui (IOD Edizioni, 2018); Morfeologie (id., 2019); la silloge Alienità (Edizioni Divinafollia, 2019). Ha curato i volumi Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità (Ombre Corte, 2014); Salvatore Manzi EXZAK (Phoebus, 2014). Collabora stabilmente con le riviste «Segno», «OperaViva Magazine», «Frequenze Poetiche». Suoi scritti sono stati pubblicati sulle riviste «Boîte», «sdefinizioni», «Roots§Routes», «Titolo», «Tracce», «undo.net».