convittrici di epilogo
dunque
figliate
morite
di neve
forme
e linee
materie
di paglie
varie
ai fini
della fine
esanime
nume
sotto palpebre
di nulla
e pagine
marcirete
in altre
apparizioni
date
alle fiamme
del gelo
(da Uno sguardo caduto, Manni, 2000, p. 53).
Quanto siamo alienati da questa società basata molto sul profitto e pochissimo sull’essere? Noi che ricerchiamo la conoscenza, ci siamo sconosciuti, noi stessi ignoti a noi stessi, e la cosa ha le sue buone ragioni, noi non ci siamo mai cercati: come avremmo mai potuto un bel giorno ritrovarci? Non ci sono più punti fermi, le azioni sono dipinte con colori svampiti: si fa a gara a chi raccoglie più insoddisfazioni. L’alienabilità inizia da questo, mentre un’inquietudine di voci scava profondi solchi, incuneandosi nei meandri dell’incompiuto: un’inquietudine è sempre la porta che conduce ad esprimere il meglio di sé.
Lo sapeva bene Donata Passanisi che nella Premessa al suo Colpevole di realtà (1992), ci conduceva verso l’alienità, ovvero sul «possesso e l’appartenere: qui credo si giochino insieme il caso e la necessità di scrivere.
Impugnare l’oggetto, prosciugandolo all’estremo fine, per esserne governati.
O comunque, generare per essere generati, fino a nuove estinzioni.
E scavare nello scavare, ringhiare nella materia rimossa. Colpevole di realtà, fondare una lingua che si specchia nel tempo e nel luogo, rovesciata, e, quindi, salva.
Scrivere è desiderare indizi, e disintegrare tracce, spiare nell’accampamento proprio qualche brace inestinta, dopo la fuga, che è sempre notturna.
E il gesto, ogni volta ripreso, congiunga la linea al punto, sulla strada.
Ma, a scrittura conclusa, non si sappia più chi è stato l’ospite, se l’io della specie e del mondo. se il corpo della mente, o che altro.
E questo, credo, per dubitare ciecamente della natura e, perché no?, della morte» (in Aa. Vv., Ákusma. Forme della poesia contemporanea, Metauro Edizioni, p. 179).
Anche i libri sono alienati, oltre ai loro autori, specie se provengono dall’industria culturale, e i libri da non leggere ‒ facendo due nomi ‒ sono quelli di Francesco Moccia, il Cassola del Duemila, mentre le poesie da non leggere sono quelle di Alda Merini, la Liala della poesia: prezzemoli per tutte le minestre. Ancora troppa è la conservazione di tracce di servilità tout court. Se avessi la mano ferma e l’intelletto di Wittgenstein scriverei un tractatus-logico-poeticus: ma dove lo trovi un editore pronto a rischiare? E allora ci tocca scrivere ‒ a noi autori marginali e marginati, spesso per scelta ‒ in una realtà che è diventata lo scontro delle ipocrisie, e non resta che rovesciare tutto in parodia: in paradosso.
Lo sapeva bene Passanisi che pensare di tramutare in merce ciò che si scrive, si è destinati inevitabilmente a “smarrirsi” sulla superficie delle parole: una superficie scivolosa. Il segno poetico sottace sensuali codici che spesso fanno lo sberleffo alla lingua dei “padri”, oltre i lineamenti femminili del porsi come si attenderebbe da una donna («… E mammelline / del fieno / zuppe di quiete / e d’ansia / sazia a giacere / della sua stessa / sconturbata / sostanza», resti di figura, da Le vuote sorelle, Bastogi, 1993, p. 32), sull’arco spazio-tempo, di una scrittura “turbata”:
l’orizzonte schiantato
il bel fragore
con nubi
in pericolo
al mio piccolo
orecchio
costernato
resta
dipinto
Ogni battito
di colloquio…
(da Uno sguardo caduto, Manni, 2000, p. 69).
Se io fossi più cristiano, potrei arrivare a dire che la poesia salvifica, poiché è il verbo di Dio, e visto che sono anche comunista, mi appare evidente affermare che altro non è che il frutto di un linguaggio tormentato: ha la propria legge nella dannazione del fallimento. Ma la lezione del divenire tra la percezione e il magma dell’origine delle cose di Passanisi, tenta di ridisegnare la propria origine, più che un linguaggio tormentato, la memoria, la capacità di qualcosa che vada riprendendosi quell’ostinata irrequietezza, tra corpo e silenzio o il soccorso al desiderio tumultuoso.
E già! Lo sapeva bene Passanisi che c’è Andrea Zanzotto a illuminarla (il Zanzotto del significante, della psicanalisi: «Zanzotto / il campo / per diniego / verticale / tale quale / l’orizzonte / sbrecciare / volle / di sbieco / tocca / il nome / ponente / l’insieme / dei cennipietre / inerme / annotta / il tumulo / o legge / dell’albero / cresce / antesaecula / serve / l’erede / circondare», il ventunesimo, ivi, p. 78); ma rispetto al poeta veneto – ed è una cifra tutta passanisiana – si denota in questi testi una diversa proposta del significante che è sì riorganizzazione mentale al limite di un atteggiamento “ermetico” ma “controllato” da moduli più fisici che metafisici, ancorché combinatori dell’inconscio sofferente del reale (siamo tra le sofferenze della gente di Pristina, per es., della Moldava, della Bosnia tutta e del Kosovo, che riecheggiano in più testi di questo volume), entropici e di mediterranea solarità infine (ritorna il dualismo, la tesi, l’antitesi e l’alienità); ma la dimensione del proprio intimo o del proprio dettato quotidiano, tra immagini stereotipate o autobiografismi fini a se stessi, qui è quasi assente, sostituito da una poesia civile di una voce inquieta ed inascoltata, ascrivendo questi testi di diritto alla sperimentazione del vissuto, del dubbio, l’alienante dubbio: « fra l’immoto / ardente / e il mio dubito / dubito / del furto / al nulla / e del dubbio, IBID., il manichino o soccorso al desiderio, p. 86).
Lo sapeva bene Passanisi che bisogna far ricorso al desiderio di traslare il senso della parola attraverso concatenazioni casuali, intonazioni curvate sul tempo indecifrato per tentare di aver ragione sull’alienibilità, tenendo dentro la valenza di uno spiraglio di una forma aperta, il bel fragore / con nubi / in pericolo / al mio piccolo / orecchio / costernato, incuneandosi nei vuoti del dicibile. È anche un tentativo di riformulare una possibile metamorfosi della scrittura, del tempo appunto, rimarcata dal desiderio di creare e ricreare resistenze paradossalmente al loro corso naturale, dove le forme deformandosi formano infinite combinazioni di un qualcosa d’irraggiungibile, indicandoci ciò che manca e no ciò che si cela nei meandri del linguaggio, della scena intrapresa: «Nessun poeta vi si arrende sùbito. Confligge. Fino a trovare le parole che non colmano vuoti, non placano, e soprattutto non fingono più: null’altro che metafore di ciò che una mente percepisce, a un’altra mente offerte. In questo passaggio di inquietudine, dentro vicende e biografie mai sottratte a storie ed esistenze concrete, le poesie di Passanisi porgono, adesso, il loro alone, spargendo ciò che manca: una piccola luce, un’altra, per condividere l’oscurità» (Giuliano Mesa, Postfazione a Uno sguardo caduto, op. cit., p. 108).
La scena è spettatrice, la forma raffigura ciò che scruta linee ben distinte a resistere di fronte al demolire la materia distratta e segmentata del nostro umano «e dunque conflittuale [ritorna l’inquietudine, l’alienità], tra “realtà” della storia e delle storie […] e “realtà” della parola, delle poesie, dei singoli oggetti poetici raccolti, costruiti [per accumulo e irrequietezza] […] E tuttavia si attenua il “furore” per l’incompiutezza, o il fallimento, della nominazione» (Ivi, p. 107).
Lo sapeva bene Passanisi che la poesia cammina addirittura sugli orli degli abissi, senza soffrire di vertigini. Non ci sono bei sentimenti («tra materie / aeree / rema / la clematide / suadente / ha miniere / violette / alterne …», IBID., angolo tremito, p. 26). Proprio coi bei sentimenti si fa la cattiva letteratura, come scrisse Gide in una “lettera aperta” che prendeva di mira il Muriac di Dio e Mammona: i bei sentimenti fanno cattiva soprattutto una poesia. La forma logica del linguaggio non si può spiegare, troppi punti di vista dovrebbe schiarire, uno per ogni individuo, il che è impossibile: è forse per questo motivo la sua natura più originale è data dal caos. Ma chi scrive fiumi di poesia ha letto ben poco e pretende il successo, dovrebbe domandarsi sul cosa e non sul come si comprende il senso di un’immagine della realtà, se un pensiero è tale solo perché è pensiero o perché esprime un senso. Dopo il fallimento della poesia, la poesia è l’unico “rimedio”: ricordarsi, però, che la poesia non è destinata al museo, bensì alla pratica della vita: anche la più semplice delle parole è un’apertura al mondo.